Il principio di piacere e’ uno dei concetti freudiani che stanno alla base della teoria psicoanalitica. E’ uno dei due principi che regolano il funzionamento psichico. Nella sua formulazione piu’ semplice si può definire il principio di piacere come l’insieme delle attivita’ psichiche messe in atto per evitare il dispiacere. Si presenta cioe’ come un sistema di accomodamento, di evitamento. Cio’ che e’ da evitare e’ il dispiacere inteso come aumento dell’eccitazione. Il sistema psichico, se troppo eccitato, soffre. Il piacere deriva di conseguenza dall’allentamento di tale tensione. Dalla sua pacificazione. In questo senso il piacere e’ il ritorno ad uno stato di quiete, di pace, di tranquillita’, di rilassatezza. Seguendo questo versante: l’inerzia, l’indolenza, l’inoperosita’ e l’ignavia rappresentano il massimo delle aspirazioni per il sistema psichico. Mantenendosi in questo stato il sistema psichico eviterebbe ogni tensione e di conseguenza ogni dispiacere. Per definire meglio questa tendenza Freud introdurra’ in Al di la’ del principio di piacere(1), la pulsione di morte, da distinguere dal principio di piacere, come tendenza fondamentale alla radicale riduzione o eliminazione delle tensioni. E’ nell’articolarsi di questa tendenza che la tossicodipendenza realizza la sua essenza.
Non e’ raro ricevere nelle prime sedute l’esplicita richiesta: Dottore, non ce la faccio piu’. Vivo in continua tensione. La prego, faccia scomparire questo dolore.
E’ la domanda di fondo della cura. Di qualsiasi cura. Che smetta. Che tutto sia meno doloroso o faticoso. In fondo cio’ che si chiede e’ sempre l’azzeramento, l’eliminazione del fattore disturbante, di cio’ che fa ostacolo. In somma, vogliamo vivere senza pensieri e disturbi. Una vita alla Oblomov, senza sforzi, senza scompigli, ma con tanto riposo e tanti fantastici sogni. Del resto, come ci spiega Freud, il sogno ha come principale motivo d’insorgenza il continuare a dormire. Svegliarsi, si sa, comporta gran grattacapi e preoccupazioni come cantava il Banco del Mutuo Soccorso: Non mi svegliate ve ne prego / ma lasciate che io dorma questo sonno, / c’e’ ancora tempo per il giorno / quando gli occhi si imbevono di pianto, / i miei occhi… di pianto. (2)
Svegliarsi e’ dolore e dispiacere.
Il non dormire e’ poi una maledizione: l’insonnia!
Forse e’ proprio per riuscire a dormire che si sono inventati i farmaci, le prime tisane e l’alcool.
I farmaci, i medicamenti, i lenitivi, altro non sono che espedienti per calmare, per sedare, perche’ tutto passi, tutto si tranquillizzi. Soluzioni rapide ed efficaci che l’essere umano apprezza proprio per la loro efficienza ma che racchiudono in se’ un lato oscuro, inconfessabile che una breve digressione sull’etimologia della parola farmaco (Che deriva dal termine greco Pharmakos) ci aiutera’ a comprendere.
Con il termine Pharmakos si indicava un rituale largamente diffuso nelle citta’ greche, simile a quello del capro espiatorio, che mirava ad ottenere una purificazione mediante l’espulsione dalla citta’ di un individuo chiamato appunto pharmakos (qualcosa come “il maledetto”).
Ne parla, per esempio, il poeta Ipponatte: egli dice che un uomo scelto per la sua bruttezza veniva nutrito a spese della citta’, poi, un giorno stabilito, era scacciato a frustate; in altri luoghi ogni anno uno sventurato veniva “comprato” e nutrito a spese pubbliche, poi lo si espelleva a sassate dalla citta’.
Ad Atene, durante le feste Targelie, in onore di Apollo, venivano scelte due persone di aspetto ripugnante, un uomo e una donna, adornate con collane di fichi e infine scacciate fuori dalle mura.
Sul significato del rito si e’ molto discusso; si e’ pensato che esso fosse un residuo di primitivi sacrifici umani; secondo altri sarebbe invece un rito legato alle pratiche agricole, posto in atto per allontanare dalle messi la sfortuna e le calamita’ naturali. In sostanza, si tratta di un rito simbolico destinato a placare l’angoscia per la contaminazione incombente sopra la comunita’. Cosi’ il gruppo scarica la propria aggressivita’ su un emarginato, scelto per la sua deformita’ come simbolo del male. Evidentemente egli non e’ colpevole di nulla, ma il suo compito e’ proprio quello di essere il rappresentante di ogni forma possibile di sventura: espellendolo, la citta’ si libera di un essere tabu’, un intoccabile, un perturbatore della pace, che assume su di se’ le colpe e le maledizioni di tutti. Percio’ il pharmakos e’ contemporaneamente il reietto e il salvatore, che con il suo sacrificio permette alla comunita’ di ritrovare la propria sicurezza e ne garantisce la pace. Non puo’ andare perduta l’associazione con il mito Cristiano dell’Agnello di Dio che toglie i peccati dal mondo e la stessa crocifissione del Salvatore, diventato egli tale proprio in virtu’ del sacrificio al quale prende parte.
Piu’ tardi il termine Pharmakos si trasformo’ in pharmakeus, che indica una droga, pozione magica, guaritore, avvelenatore, per estensione un mago o uno stregone. Una variante di questo termine e’ “pharmakon”, che significa pianta curativa, veleno o droga. Da questa variante deriva il termine moderno “farmacologia”.
E’ chiaro, come evidenziato anche dalla sua etimologia, che il farmaco non e’ altro che un espediente per liberarsi del male di vivere, sia esso fisico o esistenziale, fortemente determinato nella sua definizione dal momento storico in cui si presenta. Oggi si soffre di cose che nei secoli scorsi o non esistevano, o non erano considerate sofferenze.
In questo momento storico assistiamo inerti a centinaia di messaggi pubblicitari di farmaci per i reumatismi, i dolori mestruali, i mal di testa, i mal di gola. Ogni dolore ha il suo peculiare medicamento. Una corsa esasperante verso l’azzeramento di ogni inconveniente, di ogni complicazione. Una corsa che ha il suo risvolto nella creazione di nuovi dolori per rispondere ad una industria farmacologia sempre piu’ agguerrita e bisognosa di vendere. Una industria, per l’appunto, asservita alle leggi del capitalismo. O del post capitalismo. A questa corsa, del resto, concorre anche la psicoterapia. Nel suo diversificarsi e specializzarsi: la tale terapia e’ perfetta per gli attacchi di panico. Per l’anoressia e’ invece meglio questa altra. L’importante e’ pero’ che agiscano in fretta, anzi subito. Terapie brevi, super brevi. Una mercificazione esasperata.
Prendere una pastiglia per ogni cosa, aderendo in tal modo inconsapevolmente all’ideale della regolazione “psicosomatica” integrale del proprio essere, comporta, come ben illustrato da Graziano Senzolo (3), sottovalutare un fenomeno che resiste a una catalogazione nei termini grossolani del discorso corrente, scisso fra farmaco e non farmaco. Questa contrapposizione ideologica comporta pertanto anche forme di accanimento verso certi tipi di sostanze e di proporzionale tolleranza verso altri tipi. E’ una posizione per certi versi inedita, che nasce nella sua forma di crociata universale solo di recente – al termine dell’Ottocento, in coincidenza non casuale con lo sviluppo dell’industria chimico-farmaceutica – e che si fonda su una scissione netta, fra droga e farmaco. Cio’ che viene dipinto come “non comune”, come contrario alla normalita’, alla comunita’, e’ in realta’ sempre stato patrimonio della comunita’ umana. A dispetto della natura di “veleno” che la droga, nell’ideologia corrente, rappresenterebbe per l’umanita’ stessa.
Il discorso scientifico produce una vasta gamma di oggetti farmacologici supposti trattare ogni forma di malessere soggettivo. Si tratta di prodotti frutto di un certo ideale. Un ideale che, oltre a promuovere la radicale mendace differenza tra farmaco (buono) e droga (cattiva), costruisce il mito del dominio sul reale del sintomo. Ma l’ideale, come ci insegna Lacan, non riesce mai a “prendere” totalmente il reale, ne lascia fuori sempre un pezzo. C’e’ dunque sempre un residuo, un resto. Droga e’ il nome di questo resto. Un resto reale che si presenta come godimento puro, avulso da ogni logica salutista, e che palesa lo scacco a cui va incontro la logica reintegrazione ad integrum che soggiace all’idelae scientifico farmacologico. Coloro che si aggrappano a questo residuo e, da un certo punto di vista, sbattono in faccia alla societa’ il lato di menzogna di quest’ideale sono i tossicomani. Dei radicali sostenitori della soggettivita’ non integrabile al discorso del Padrone. Degli inguaribili, per fortuna – almeno per questo aspetto -, patiti del godimento come forma assoluta di soggettivita’. Un godimento che implica una scelta soggettiva radicale che sfugge ad ogni giudizio morale.
E’ in questo senso che intendo le parole pronunciate da Lacan durante la sua conferenza a La Salpetriere il 16 febbraio 1966 (testo conosciuto con il titolo Psicoanalisi e medicina).
Egli fa notare come queste sostanze “complica singolarmente il problema di cio’ che fin qui si e’ qualificato in modo piattamente poliziesco come tossicomania (…)Quale sara’ la posizione del medico nel definire questi effetti a proposito dei quali fin qui egli ha mostrato un’audacia nutrita soprattutto di pretesti, perche’ dal punto di vista del godimento, che cosa di un uso regolato di ciò che chiamiamo piu’ o meno propriamente tossici, può avere di reperibile – a meno che il medico non entri chiaramente in cio’ che e’ la seconda dimensione caratteristica della sua presenza al mondo, cioe’ la dimensione etica? Queste osservazioni che possono sembrare banali, hanno pero’ l’interesse di dimostrare che la dimensione etica e’ quella che si sviluppa nella direzione del godimento.” (4)
In buona sostanza, l’accento posto sul giudizio morale che ci porta a considerare riprovevole l’utilizzo di certe sostanze e sano l’utilizzo di altre, ne evidenzia la struttura manichea che si presenta come ostacolo nella discussione della tossicodipendenza. Un preconcetto che ne condiziona la lettura e l’analisi. Di conseguenza o ci si barrica dietro il divieto, che e’ espressione del livello morale di giudizio sulla droga, e cosi’ facendo si evita di confrontarsi con la dimensione di godimento del soggetto che si droga – godimento che corrisponde a una certa scelta – oppure ci si confronta anche con questa scelta di godimento, e allora siamo nel campo dell’etica, il campo proprio alla psicoanalisi.
L’idea dominante in questo momento, e che guida la ricerca contemporanea sul trattamento delle tossicodipendenze, e’ che segregare, isolare i soggetti in base alle caratteristiche di consumo, quindi in ultima analisi, di godimento, consenta di trattarli meglio. Questo e’ tuttavia un grossolano errore perche’ la droga non e’ un sintomo, ma qualcosa che vela il sintomo, cioe’ la formazione di compromesso assolutamente singolare su cui si sostiene un soggetto. E’ il rischio dell’allodola, farsi cioe’ abbagliare dallo scintillio dello specchietto, in questo caso costituito dal consumo di sostanza, qualunque essa sia, e perdere di mira il vero obiettivo, vale a dire il fantasma che sostiene e rende possibile tale “soluzione” tentata dal soggetto.
Il mero fatto di prendere una sostanza psicoattiva non e’ drogarsi. Drogarsi e’ un atto del tutto particolare, per giudicare il quale non si puo’ prescindere dalla dimensione soggettiva. E’ infatti il soggetto ad eleggere quella sostanza particolare alla dignita’ di un oggetto cui viene attribuita una funzione aggregante rispetto alla sua economia libidica.
La mira ultima del tossicomane non e’ certo la dipendenza ma il suo contrario, l’indipendenza. L’indipendenza dall’Altro. Vale a dire cio’ che Silvie Le Poulichet (5) definisce: “operazione del pharmakon”. Tale operazione ha precisamente questo scopo: generare un stato di alter-azione auto prodotto. Fabbricare uno stato che porti ad essere altro da cio’ che si e’. L’alterazione e’ un modo per sfuggire l’alienazione soggettiva che e’ fondante del soggetto umano. E’ un rigetto della propria divisione, altro nome dell’alienazione. Per Le Poulichet l’atto di drogarsi, l’operazione del pharmakon, e’ assimilabile a una sorta di allucinazione.
Nell’allucinazione l’Altro non c’e’. L’allucinazione non e’ il pensiero. Perche’ il pensiero divide il soggetto. Il pensiero e’ la presenza dell’Altro, della catena significante, dentro il soggetto. Parlare di pensiero vuol dire riferirsi a qualcosa che e’ squisitamente individuale. I nostri pensieri rappresentano proprio la sfera piu’ intima della nostra individualita’.
Il grossolano errore a cui accennavo sta dunque nel contribuire, per consonanza, all’eliminazione dell’intimita’ del soggetto, cogliendone solo la manifestazione comportamentale senza prestare attenzione a cio’ che il soggetto, anche tramite un uso di una sostanza che a volte sembra stupido, stereotipato e compulsivo, sta dicendo.
Vale a dire che e’ sempre opportuno chiedersi: cosa significa per quel soggetto particolare la tossicodipendenza? Che funzione assume per quel particolare soggetto?
Questione che viene assolutamente elusa se ci si sofferma alla pura tipologia di assunzione, alle caratteristiche di assunzione, e che risponde, anch’essa, alla tendenza alla moltiplicazione per specializzazione (per spezzettamento) dell’oggetto (di studio).
L’analisi proposta da Michel Foucault isola molto bene in queste “pratiche di divisione”(6) e di “classificazione scientifica”(7) delle strategie di controllo sociale e di esercizio del potere. Un sistema di controllo fondato sulla tecnica del “giudizio normalizzatore” per cui le persone sono valutate in base a determinati standard o specificazioni delle loro prestazioni o pratiche. Un sistema in cui tutte le deviazioni dalla norma e dalla regola sono punibili. Strategia che ha giocato un ruolo essenziale nell’evoluzione della definizione di tossicodipendente, come dimostra l’accurata analisi proposta da Caroline Jean Acker(8). L’autrice ricostruisce in modo preciso e documentato le tappe che, nella societa’ americana, hanno portato alla costruzione di un vero e proprio stereotipo del drogato, o junkie, termine che nella lingua inglese ha una connotazione fortemente spregiativa, e che rimanda all’idea dello scarto, dell’oggetto spazzatura.
Note:
* – The Dark Side of the Moon e’ forse uno dei piu’ famosi album dei Pink Floid gruppo mitico per la cultura lisergica e psicadelica
1 – Sigmund Freud, Al di la’ del principio di piacere in Opere di Sigmund Freud Vol. 9, Bollati Boringhieri, Torino, 1977
2 – Banco del Mutuo Soccorso, Non mi rompete in Io sono nato libero, LP Ricordi, MIlano, 1973
3 – Graziano Senzolo, La droga fra clinica e discorso sociale. Tre lezioni su Lacan e la tossicomania, Libreria del Segno Editore, Pordenone, 2010
4 – Jacques Lacan, Psicoanalisi e medicina, in La Psicoanalisi n° 32 luglio-dicembre 2002 – pag 15
5 – Silvie Le Poulichet, Toxicomanie et psychanalyse. Les narcoses du desir, PUF, Paris, 1987
6 – Michel Foucault, Storia della follia nell’eta’ classica, Rizzoli, Milano, 1977
7 – Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 1973
8 – Caroline Jean Acker, Creating the American LJunkie. Addiction research in the clasic era of narcotic control, JHU Press, Baltimora, 2002