Marina Abramović e Ulay: il legame come performance

Il secolo scorso è stato costellato da esperienze d’avanguardia in cui gli artisti si sono confrontati a diversi livelli e a più riprese con la presenza del corpo, ma non quale entità da ritrarre, da riprodurre nella sua perfezione come si è fatto per secoli nella storia dell’arte, ma come oggetto espressivo, come luogo di sperimentazione, sul quale si sono accanite le più radicali forme di ricerca. Il corpo è stato fotografato, agito, ferito, modificato, squartato, oltraggiato, beatificato.
Siamo quindi in un ambito specifico dell’arte, definito Body-Art, per la quale il corpo è il mezzo privilegiato della espressione artistica.
Se parliamo della coppia Abramović e Ulay dobbiamo ricordarci che siamo in questo contesto.

Nella Body Art si possono riconoscere due filoni ben distinti.
Nel primo le azioni sottolineano le funzioni del corpo stesso e delle sue parti, servendosi di mezzi di riproduzione meccanica (fotografia, video e film) nel tentativo di indagare e documentare le potenzialità corporee. L’azione si risolve in una serie di esercizi che presuppongono una lunga preparazione e un’attenta analisi.
Nelle azioni del secondo filone, decisamente più dure, il corpo viene vissuto come luogo di azioni sadomaso, come soggetto-oggetto di azioni violente e aggressive. L’aggressività legata al narcisismo trova qui il suo impiego artistico.

Quindi, la Body-Art non produce oggetti artistici bensì azioni, performance, a cui il pubblico assiste.
La Body-Art si realizza nel “qui e ora”, in una condivisione di pathos con il pubblico che potremmo definire sincronica. Ciò significa che l’aspetto emotivo, il pathos, lo shock, l’urto che l’azione esercita sul pubblico, è parte essenziale dell’azione.

Possiamo spingerci oltre e dire che lo scopo della Body-Art è proprio creare le condizioni perché si produca quest’urto. Ed è qui il rischio di cadere nel sensazionalistico fine a sé stesso. Ma al di là di questa possibile deriva, nella Body-Art c’è questa urgenza di creare un incontro con il reale e quindi in qualche modo un evento potenzialmente traumatico.

Ma la questione di fondo è:
Davanti a questi corpi agiti, corpi oltraggiati, davanti alla presenza reale del sangue e della carne lacerata, a manifestazioni di violenza gratuita, siamo ancora nell’ambito dell’arte?

Voglio dire
Cos’è l’arte? Cos’è un’opera d’arte?
La risposta più semplice è: l’opera d’arte è un inganno.
C’è a questo proposito la famosa sfida tra Zeusi e Parrasio raccontata da Platone. Zeusi dipinse una grappolo d’uva che ingannò persino gli uccelli che vennero a beccarla, ma fu sconfitto da Parrasio che dipinse un velo sotto cui Zeusi credeva che Parrasio avesse celato la sua opera.
Le opere d’arte in fatti imitano gli oggetti che rappresentano, ma il loro fine appunto non è di rappresentarli. Nel dare un’imitazione dell’oggetto, fanno di quest’oggetto qualcosa d’altro.
Alludono ed illudono.
Quindi l’opera d’arte è sostanzialmente un velo che fa apparire una cosa, celandola.

Le forze motrici dell’arte sono gli stessi conflitti che spingono altri individui alla nevrosi e che hanno indotto la società a fondare le sue istituzioni. Donde venga all’artista la capacità creativa non è un problema della psicologia. L’artista persegue innanzitutto la propria liberazione e, comunicando la sua opera, la trasmette ad altri che soffrono degli stessi desideri trattenuti. E’ vero che egli rappresenta come appagate le sue fantasie di desiderio più personali, ma queste divengono opera d’arte soltanto se vien loro impressa una forma diversa che mitighi l’aspetto urtante di questi desideri, ne celi l’origine personale, e offra agli altri, rispettando le regole del bello, seducenti premi di piacere
(Sigmund Freud – L’interesse per la psicoanalisi – in Opere di Sigmund Freud; Ed. Bollati Boringhieri, Torino 1975 – Trad. Elvio Facchinelli – Vol. 7; pag. 269)

Ritornando alla nostra domanda:
Se nella pratica della Body Art avviene una esposizione tout-court di un godimento che, riferendosi alle elaborazioni proposteci sia da Freud che da Lacan, dovrebbe rimanere assolutamente celato, possiamo ancora parlare di sublimazione?
O siamo di fronte ad un cambiamento radicale che impone l’elaborazione di una nuova prospettiva nel modo di pensare l’opera d’arte e la sublimazione?

Partendo da presupposti psicoanalitici non dovremmo riconoscere a questo ambito di ricerca artistica alcun movimento di sublimazione fondante l’opera d’arte. Questa vera e propria ostentazione di godimento inscenata nelle performance va quindi a scuotere profondamente l’idea stessa di opera d’arte, intesa come sublimazione.

Nel processo di sublimazione, infatti, si assiste ad una radicale rinuncia ad un parte della pulsione. Cioè il soggetto, per accedere al legame sociale o alla dimensione estetica deve rinunciare ad una parte di godimento. O meglio, secondo i termini freudiani, modificare la meta del soddisfacimento della pulsione.

Qui, al contrario, assistiamo ad una vera e propria ostentazione del godimento.

Però non possiamo astrarci dal consenso mercantile e di critica che “contestualizza” il lavoro della Body Art, lo autorizza e gli attribuisce lo status di arte.
La Body-Art, sebbene urtante, priva, come abbiamo visto, di un lavoro di sublimazione, è comunque arte.
E, soprattutto, non dobbiamo dimenticare i tre requisiti elencati da Freud perché ci sia opera d’arte.

1. Mitigare l’aspetto urtante dei desideri inconsci
2. Celare l’origine personale di tali desideri
3. Offrire agli altri seducenti premi di piacere

Dove il punto che voglio evidenziare è quello relativo ai “seducenti premi di piacere”.
Vale a dire l’attribuzione di un valore da parte dei fruitori, da parte della società.

Vediamo però prima come la coppia Abramović-Ulay ha perseguito la propria liberazione.

Innanzitutto, dopo aver letto e riletto il titolo di questa giornata sono arrivato alla conclusione che, a mio parere, non è il legame ad essere al centro del loro lavoro bensì la relazione.
Con questo voglio dire che oggetto di analisi e indagine non è il legame sociale, non è quello che Lacan definisce Discorso ad essere lavorato.
Anzi, esso rimane stabile e inquadra e garantisce significato al lavoro svolto.

Ciò che viene messo al centro del lavoro di Abramović-Ulay è la nascita, lo sviluppo, l’evoluzione e l’esaurimento di una relazione d’amore, di una relazione con il partner-sintomo che qui vediamo espressa in molte delle sue sfaccettature.

Con partner-sintomo si intende un partner che va oltre la relazione immaginaria dell’innamoramento, oltre la dimensione simbolica dello scambio discorsivo e che ha un ruolo reale nella vita del partner, nel godimento del partner. Vale a dire che il partner-sintomo risponde alla questione economica libidinale della relazione di coppia. La compensazione libidica che costituisce, e che forma l’aspetto inerziale, ma anche la soluzione che tante volte è difficile abbandonare o pensare di sostituire, come insegnano i trattamenti di coppia dove quanto più il partner è insopportabile tanto meno ce ne si può privare. Non se ne può fare a meno. O come magistralmente sintetizzato nel film di Truffaut “La signora della porta accanto”, oggetto di un prossimo appuntamento di questo ciclo: né con te né senza di te.

Partiamo dal trittico dedicato esplicitamente alla relazione:
“Relation in space”(Luglio, 1976), “Relation in Time”(1977) e “Relation in Movement”(1977).

In “Relation in space” abbiamo l’incontro con il corpo del partner, il corpo dell’altro.
Inizialmente timido e curioso diviene sempre più aggressivo e brutale. Nella sequenza della performance is passa infatti dagli iniziali leggeri sfioramenti, quasi casuali, a dei veri e propri scontri dove l’una si scaglia contro l’altro.
In questo passaggio ci sono tutte le forme in cui si declina l’attrazione esercitata dall’oggetto del desiderio sul soggetto. Una vasta gamma che va dalla curiosità, all’interesse, passa dall’amore alla concupiscenza, ma può anche manifestarsi nell’esatto contrario: castità, odio, avversione, indifferenza.
Alla base c’è lo scatenarsi di una rivendicazione, cioè l’idea di recuperare un possesso ingiustamente detenuto da altri, dell’odio narcisistico che tende a distruggere l’oggetto amato, o chi si immagina lo possegga, e che quindi sfugge al controllo, al possesso del narcisista. In buona sostanza stiamo parlando della frustrazione.

La frustrazione è per essenza l’ambito della rivendicazione. Riguarda qualcosa che si desidera e che non si detiene, ma che si desidera senza alcun riferimento a una qualche possibilità di soddisfacimento o acquisizione. La frustrazione è di per sé l’ambito delle esigenze sfrenate e senza legge.
(Lacan Seminario IV)

In questo caso il corpo dell’amato che, come nell’esempio classico del seno della madre, non potrà mai essere a completa disposizione del soggetto, sia esso l’amante o il bambino.

La frustrazione si applica a qualcosa di cui siete privati da qualcuno dal quale invece vi aspettavate ciò che gli chiedevate. Ciò che è in gioco, allora, non è tanto l’oggetto, quanto l’amore di colui che può farvi questo dono. L’oggetto della frustrazione non è tanto l’oggetto, quanto il dono.
(Lacan Seminario IV)

L’impossibile fusione dei corpi degli amanti. L’impossibilità di introiettare l’oggetto del desiderio che sta nel corpo dell’altro (seno, pene) è alla base anche del successivo “Relation in time” dove l’unione dei corpi è espressa dall’intreccio dei capelli dei due artisti a creare un tutt’uno che li lega in una sorta di figura androgina bifronte. Una congiunzione tra teste, un cordone cranico al posto di quello ombelicale, o meglio un cordone neuronale. Un intrico di cellule nervose ad indicare il travaso del pensiero dell’uno nella testa dell’altro.
L’interessante di questa performance è che i due artisti si offrono allo sguardo del pubblico dopo un lungo periodo a porte chiuse, circa 17 ore, senza pubblico e senza telecamere. Offrono quindi la visione di un equilibrio in tensione minato dalla stanchezza. Un equilibrio prossimo alla rottura. Possiamo pensare alle prime 17 ore come alla fase di chiusura della coppia, la fase di autosufficienza, in cui la coppia si salda in questa fusione immaginaria che regola la fase dell’innamoramento e che la esclude dal legame sociale (Freud parla della coppia come di una forza disgregativa del legame sociale). Mentre quando si offrono allo sguardo, tutti vedono l’intricato e precario equilibrio che li lega tranne i due che formano la coppia che ne soffrono solo le conseguenze fisiche e psicologiche.

Ed infine “Relation in movement” dove abbiamo la rappresentazione plastica della routine della vita di coppia, o meglio delle insidie della ripetizione, vale a dire l’ostinazione dell’essere umano nel rimettere continuamente in gioco lo stesso cerchio di pensieri, le stesse dinamiche, anche quelle (soprattutto quelle, per essere precisi) che determinano conseguenze problematiche per il soggetto. Dinamiche che possono essere distruttive ma che sono anche alla base del forte legame che sostiene la relazione con il partner-sintomo.

Questo eterno girare in tondo, 2226 giri in 16 ore, possiamo vederlo anche come la rappresentazione della sublimazione.
Lacan parla della sublimazione come un lavoro di bordatura del vuoto, vale a dire che è un modo di circoscrivere la Cosa che produce una traccia, un sedimento, un segno, una scrittura.
Per questo “Relation in Movement” può essere presa come punto d’inizio del loro lavoro. Questa azione circoscrive il campo della loro indagine. Circoscrive il reale di cui si tenta di dire qualcosa. Il reale che fa buco nella relazione Soggetto Partner-sintomo.

In “Relation in space” e “Relation in Movement” abbiamo evidente anche l’elemento della ripetizione. Una ripetizione che lascia un segno, sul corpo come contusione, ferita, nel primo caso; un segno al suolo, come consunzione delle ruote, di ciò che gira, nel secondo.

La ripetizione la troviamo anche in un’altra azione coeva “Expansion in space” che, come esplicita il titolo, è chiaramente una espansione, uno sviluppo, un allargamento del concetto espresso in “Relation in space”, vale a dire l’ostinata, incessante, ripetizione che porta il soggetto a sbattere contro lo stesso ostacolo. Se nella prima azione abbiamo questa dinamica all’interno della copia, nello spazio vitale della copia; nella seconda abbiamo la fuga dalla copia, l’allontanamento, la separazione dal partner per andare a trovare lo stesso punto di arresto all’esterno della coppia. L’elemento di espansione minima dello spazio insita nella performance, vale a dire il minimo spostamento delle colonne contro cui sbattono i due performer, così come la differenza dell’impatto dei corpi, stanno li a dimostrare, come la diversa angolazione dell’impatto nell’altra performance, che la ripetizione non è mai identica a sé stessa. Varia sempre un po’, almeno fenomenologicamente. Ma il punto d’ostacolo, l’inciampo, il limite si ripresenta sempre. La sfida è nel trasformarlo da ostacolo in opportunità, in risorsa.

In “Relation in Time” il focus è invece su un altro elemento, quello della fusione, che ritroviamo in un’altra azione dello stesso anno: “Breathing in breathing”. Qui l’impossibilità della simbiosi si fa ancora più radicale che in “Relation in time”. Oltre all’idea della mitica fusione simbiotica, oltre il tentativo di essere una cosa sola, emerge il lato oscuro, mortifero insito in questa idea. Abbiamo qui l’esplorazione di come un individuo possa assorbire, condizionare e distruggere la vita altrui. La fase orale portata al suo estremo. La bocca che fagocita l’altro, che gli toglie il respiro. La bocca che mangia se stessa. Il nutrirsi del respiro altrui svela il suo inconfessabile desiderio di annientamento dell’altro, di soffocamento dell’altro. Abbiamo qui due bocche di quel coccodrillo evocato da Lacan quando parla del Desiderio della Madre. Un desiderio fondamentalmente di cannibalismo che vorrebbe divorare il proprio figlio per tenerlo sempre nel proprio corpo.

Vediamo come in tutte queste azioni il tema non sia il discorso, il legame, ma propio le dinamiche della relazione e i latenti aspetti di prevaricazione, di annientamento, di distruzione dell’altro.
Tratti violenti, sadici che emergono sempre più sfacciatamente ad esempio in “Light/Dark” e nella successiva azione “AAA” dove i due performer, faccia a faccia, in una relazione speculare, immaginaria, si urlano addosso o si schiaffeggiano fino allo sfinimento.

Per questo credo che “Rest Energy” sia la sintesi perfetta di tutta questa serie di performance che possono essere intese come le varie declinazioni di questo nucleo centrale di “Energia di riposo”, di stallo, di tregua, di equilibrio precario, l’aspetto inerziale della compensazione libidica che sostiene la relazione tra il soggetto e il suo partner-sintomo. Equilibrio che ha come perno questo nucleo sadomasochistico che implica la morte del partner. Quindi una energia di riposo eterno.

È interessante che dopo questa famosa performance, la coppia si sia impegnata per i successivi sette anni, dal 1981 al 1987, nella performance “Nightsea crossing“, ripetuta ben 22 volte in diversi luoghi. In essa la coppia di performer non faceva assolutamente nulla se non rimanere seduti uno di fronte all’altro per sette ore. Una prova di resistenza, che aveva già caratterizzato molte delle loro azioni precedenti, ma che arriva qui ad un punto di rottura proprio per la spietata violenza intrinseca alla passività esibita in questo esasperato faccia a faccia. Un gioco di potere in cui l’equilibrio basato sul riconoscimento speculare, immaginario, narcisistico che aveva retto la coppia si frantuma nel momento in cui Ulay abbandona la performance, decretando, di fatto, la fine della loro relazione. L’arco è sostituito dallo sguardo che questa volta va a segno.

Arriviamo così all’atto finale che è costituito dalla performance “The Great Wall Walk”.

Annunciata inizialmente con il titolo di “The Lovers” come performance che celebrasse la loro unione, doveva infatti culminare con il loro matrimonio, a causa di problemi inerenti i permessi che ne ritardarono la realizzazione, finì invece per glorificare la loro separazione.

Essa è infatti una grande azione simbolica in cui due soggetti, dopo un lungo percorso, s’incontrano per dividersi.
Dopo l’attraversamento di molti aspetti immaginari e l’esplicitazione delle implicazioni reali che stavano alla base della loro relazione di coppia innamorata ( aspetto che viene spesso sottolineato nelle interviste: eravamo molto innamorati), con questa azione, Abramović e Ulay esplicitano il livello simbolico della loro relazione, costituito dal discorso dell’arte, che ha dato una cornice di senso alla loro relazione permettendo il lavoro di analisi.
Del resto camminano su uno dei pochi manufatti culturali visibili dallo spazio: La Grande Muraglia.
Grande Muraglia che ha difeso l’impero cinese dalle invasioni dell’altro, del barbaro, in psicoanalisi potremmo dire: dalla straniante alterità del godimento. Ecco, rimanere nel tracciato del discorso dell’arte, ha permesso alla coppia Abramović-Ulay di affrontare le identificazione immaginarie, sviscerarle e sublimarle in opere d’arte, di attraversare il fantasma, arrivando così, ancora una volta, uno di fronte all’altro ma spogliati. Non nudi come in molte loro azioni dell’inizio, dove il rispecchiamento impossibile era evidente nella differenza anatomica, ma vestiti dove l’alterità radicale si presenta come impossibilità di essere ancora uno il sintomo dell’altro.

Una separazione che è radicale. Almeno per quanto riguarda Abramović che cancellerà Ulay da tutte le azioni assumendone la piena paternità.
Atto che aprirà un lungo contenzioso legale tra i due. Che, citando Hoelbecq, possiamo definire come l’estensione del dominio della lotta.

Il contesto simbolico, costituito dal discorso dell’arte, ha permesso una interpretazione della relazione tra artista e partner-sintomo.
Riprendendo quanto dice Freud, l’artista persegue la sua liberazione e qui abbiamo la coppia Abramović-Ulay che si libera delle proprie pulsioni sadomasochiste, suicidarie e letali che alimentavano la relazione di coppia.

Voglio ora, in chiusura, riprendere la mia insistenza sulla parola Relazione e non su Legame come nel titolo dell’incontro.

Relazione, etimologicamente deriva dal latino REFERRE composto da RE- ‘indietro’ e FERRE ‘portare’, che significa quindi Portare indietro. Portare nuovamente. Nella relazione abbiano quindi ancora una volta questo elemento di ritorno, ripetizione. Forse per questo si parla di relazione analitica e non di legame analitico in quanto nella relazione analitica si porta ancora ed ancora la stesa cosa.
Mentre il legame per Lacan è il Discorso. Cito:

“In fin dei conti non c’è che questo, il legame sociale. Io lo designo con il termine discorso perché non c’è altro modo di designarlo una volta che ci si è accorti che il legame sociale si instaura unicamente ancorandosi nel modo in cui il linguaggio si situa e si imprime, si situa su ciò che brulica, ovvero l’essere parlante”.
(J. Lacan, Il Seminario, Libro XX, Ancora, Einaudi, Torino, 2011, p. 51.)

E se parliamo di discorso, in Lacan, dobbiamo rivolgerci alla Teoria dei 4 Discorsi, ma non credo che oggi abbiamo qui il tempo per affrontarla.

Consideriamo invece quello che dice Freud ne “Il disagio della civiltà”.
Freud afferma che, nello stesso modo della nevrosi, la coppia innamorata è una forza disgregativa del legame sociale. Come la nevrosi isola il soggetto dal gruppo sociale impedendogli la cooperazione nel lavoro, così la coppia innamorata si isola perché non ha bisogno di altro per la propria felicità.

In questa serie di performance abbiamo in effetti una relazione autosufficiente, chiusa, autoreferenziale, all’interno della quale le pulsioni dei due partner, in particolare quelle suicidare di Abamović, evidenti in molte delle sue performance senza Ulay, trovano una loro pacificazione e la possibilità di essere rielaborate.

Intervento alla rassegna “SNODI. Legami alla luce della psicoanalisi”

Università di Padova, 8 febbraio 2025