Il titolo del convegno odierno fa riecheggiare nella mia formazione psicoanalitica il titolo di un seminario di Jacques Lacan dei primi anni settanta. Per l’esattezza il XVIII, del 1971 il cui titolo è: “Di un discorso che non sarebbe del sembiante” 1. Il seminario, nella sua prima parte, non è altro che il lavoro di costruzione di un testo, famoso nell’ambito lacaniano, quanto poco frequentato in ambiti linguistici e letterari. Il testo è: “Lituraterre”, tradotto in italiano con “Lituraterra” 2.
Il neologismo coniato da Lacan unisce in sé il termine latino LITURA, vale a dire cancellatura, e il termine TERRA ed è un chiaro gioco di parole con il lemma litterature. Un calembour che amplifica quello tra LETTER e LITTER (vale a dire tra LETTERA e LORDURA, immondizia) introdotto da James Joyce.
Ma perché cancellatura?
Essenzialmente per due motivi.
Il primo è alla base di tutto l’insegnamento di Lacan. Il soggetto è un puro vuoto e si costituisce solo come effetto del signifcante. La scrittura è S barrato, soggetto barrato, diviso, eliso, svuotato nell’accesso al linguaggio, puro taglio per il fatto che il significante non può significare se stesso. È il Lacan che pone al centro del suo ritorno a Freud il linguaggio e ne trae le conseguenze.
Il secondo motivo segna invece la svolta degli anni Settanta che pone al centro del suo insegnamento il godimento. In “Lituraterre” Lacan parla della genesi del testo stesso evocando il suo viaggio di ritorno dal Giappone. Viaggio in aereo, che lo ha portato tra le nuvole, da dove ha potuto osservare il paesaggio siberiano eroso dalla pioggia. Lacan asserisce quindi che le nubi sono quelle del linguaggio, le nuvole del sembiante che quando si rompono, si mettono a piovere del godimento. Vale a dire che quando il significante si rompe si condensa ciò che vi era contenuto. E quando questa pioggia di godimento arriva a terra, ecco che la scava, la erode e si produce la lettera, la scrittura. La Lettera-Littera non è che il segno del godimento contenuto nel sembiante. Uscire dal linguaggio produce quindi un resto fuori significato che fa buco: il godimento.
Non è un caso che sempre in “Lituraterra” Lacan accenni alla letteratura d’avanguardia come unico luogo dove questa questione si propone. Vale a dire che la letteratura d’avanguardia è un litorale, un luogo di confine non definito, dove la lettera costituirebbe il litorale 3 tra sapere e godimento.
Nel seminario XVIII, che come ho già detto fa da sfondo al testo “Lituraterra”, Lacan introduce inoltre il cinese come lingua che, non solo smentisce i linguisti nella loro asserzione della doppia articolazione come un universale, ma che introduce un valore della lettera disgiunto dal suo significato. Vale a dire una scrittura dove il singolare del gesto della mano elide l’universale del significante. Valore posto in primo piano proprio nel suo riferimento al Reale, e che trova un suo riscontro nella tradizione della calligrafia come arte.
Ora, se si parla di calligrafia e di ideogrammi, la memoria va subito a Ezra Pound, ai suoi “Cantos” e all’influenza che questi hanno avuto sulla nascita della poesia sperimentale. Non è in fatti un caso che il Gruppo Noigandres prenda il proprio nome da un verso di Pound, come non è un caso che numerosi poeti sperimentali abbiano accolto l’invito di Francesco Conz a tributare un omaggio al poeta americano 4.
Andare oltre la parola, significa quindi appellarsi al cinese e alla calligrafia? E cosa vuol dire formulare un discorso che non sarebbe del sembiante? Sto forse evocando una mistica del gesto? Oppure l’atto, nel suo essere presenza pura del soggetto, evoca una nuova modalità di pensiero?
È possibile quindi pensare per atti? oltrepassando la parola, il significante, come ostacolo, come alienazione del soggetto?
La questione è sempre la stessa. Riguarda il rapporto dell’uomo con la parola. Parola che ne determina la sua stessa essenza ma che, inesorabilmente, lo aliena. Il parlessere, come l’ha definito Lacan, è questo strano animale che ha facoltà di parola. È quindi libero di parlare? Certo può starsene anche muto, ma ciò non toglie che sia comunque a bagno nel linguaggio. L’uomo, in quanto parlesere, è a bagno in quell’universo simbolico che lo determina. Esso non può sottrarsi alla parola, al linguaggio. Non è quindi ne’ libero di parlare, ne’ libero di tacere (dato che anche il suo silenzio è parola, come bene indicava Eugenio Miccini in molte sue opere) ma bensì condizionato, influenzato, ordinato dal linguaggio.
Ora, se le cose stanno così, come pensare oltre il linguaggio? Oltre la parola?
Si può superare la parola a piedi pari, con slancio atletico, come nel testo 5 di Vittore Baroni scelto per il manifesto di questo convegno? Gianni Emilio Simonetti, nel suo intervento, ha giustamente alluso all’equitazione. Forse è il caso di scrivere equivocazione? Rimettendo così al centro la parola equivoca più che il salto equino?
Siamo in un museo dedicato alla poesia sperimentale visiva, non possiamo sottrarci alla questione. Una poesia, quella sperimentale, che ha cercato in tutti i modi di operare questo salto nel corso del XX secolo e che, in effetti, ha eroso molto i suoi confini. Grazie ad una spinta che l’ha portata spesso a sondare territori che poco avevano a che fare con l’idea classica di poesia, si è spesso illusa di approdare ad una relazione univoca tra il soggetto e la sua parola. Ma alla fine possiamo dire che il salto sia riuscito?
I tentativi messi in atto nel corso del XX secolo, a iniziare dalle avanguardie storiche, di andare oltre l’alienazione insita nel linguaggio stesso non hanno che sottolineato la loro impossibilità. Tutto questo lavoro sperimentale sulla scrittura e sul linguaggio, volto ad analizzarne le componenti semantiche e visive, è sfociato inevitabilmente sulla parola come realtà sonora. Ma la poesia sonora 6 radicalizza ancora di più l’alienazione del soggetto nel linguaggio, rendendone sempre più evidenti l’aleatorietà e la convenzionalità.
Il dire è ridotto alla pura articolazione di suoni che non bada al significato. Anzi, abbandona di proposito ogni possibilità di veicolare un messaggio o un significato.
La pura sonorità vocale, e le sue infinite modulazioni incise su nastro, restano sul campo come puro dato oggettivo. Restano sul campo dopo il salto dell’ostacolo: sicut palea, tornando all’equino ma alludendo all’Aquino.
In buona sostanza, ed è questo l’aspetto che reputo più interessante, questa ricerca di possibilità di espressione, di nominazione, che il soggetto-poeta ingaggia nel corso del XX secolo attraversando ed esaurendo le possibilità offerte dal linguaggio, sia esso verbale o visivo, sfocia nella pura azione di scrittura, o di incisione, nella pura e semplice presenza del godimento del poeta e della sua azione insignificante. Vale a dire a-significato, fuori significato, ma anche a-significato perche’ inevitabilmente legata all’oggetto a che insiste e persiste come puro reale.
Ora, l’approdo alla performance, pur indicando un ancoraggio nel litorale, non credo possa essere preso come punto di arrivo. Al contrario, l’ostentazione del godimento spesso fa da ulteriore ostacolo al pensiero, come possiamo constatare nelle derive psicotiche che certi percorsi performativi hanno percorso, e riapre quindi la questione dal punto di partenza.
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Note:
1) Jacques Lacan; Il seminario. Libro XVIII. Di un discorso che non sarebbe del sembiante -1971; Einaudi, To, 2010
2) Jacques Lacan; Lituraterra; in Altri scritti; Einaudi, To, 2013
3) L’utilizzo del termine “litorale” è autorizzato dall’uso che ne fa Lacan nel suo testo a cui devo nuovamente rinviare per apprezzarne pienamente tutte le implicazioni.
4) L’omaggio voluto da Francesco Conz ha coinvolto oltre 60 poeti sperimentali di tutto il mondo che hanno prodotto una serie di lavori dedicati al poeta americano. L’impresa, che ha impegnato Conz per oltre trent’anni, pur essendo stata editorialmente completata, non è stata stampata a causa della morte di Francesco Conz.
5) Parlo di testo in quanto scrittura nel senso poco sopra indicato
6) A proposito della poesia sonora, vorrei ricordare un’ulteriore frase che Lacan scrive alla lavagna, e che poi lavora, durante il seminario XIX “Ou pire…” (Seminario ancora inedito in italiano). La frase suona così: “Qu’on dise – comme fait – reste oublie’ derriere ce qui est dit, dans ce qui s’entend” Vale a dire: “Che si dica – come fatto – resta dimenticato dietro ciò che si dice, in ciò che si intende”. Che nello sviluppo dell’ultima lezione del seminario dal titolo “Corpi catturati dal discorso”, diviene: dove sono io nel dire? Prima dell’articolazione della parola, prima ancora che ci sia un messaggio da veicolare, c’e’ l’urgenza, la spinta, la necessita’ di dire. In buona sostanza: il reale del soggetto s’eclissa nel momento stesso in cui articola un significante che, oltre che rappresentarlo, lo inserisce in un discorso.