“La tempesta” di Giorgione ha esercitato un fascino particolare sugli osservatori a partire dai primi anni del 1500 quando fu eseguita. La sua enigmaticità ha portato a numerose interpretazioni. Tra le varie possibili Balestrini predilige per questo ciclo di lavori quella che vi vede rappresentata la Cacciata dal Paradiso, conseguenza del peccato originale. Un tema assai bizzarro per Balestrini ! Certamente è così se lo si considera come un esercizio di esegesi biblica. Ma evidentemente non è in quella direzione che si deve indagare. Il paradiso perduto non è un tema esclusivo dei credenti. Al contrario, la sensazione di perdita è una condizione universalmente condivisa dall’essere umano. La psicoanalisi ce lo ha spiegato in più modi. Una condizione che si acuisce nei momenti di crisi, sia essa strettamente personale, intima, oppure sociale, collettiva. La scelta di Balestrini di utilizzare “La Tempesta” del Giorgione in questo ciclo di lavori ha quindi a che vedere con la perdita.
L’enigmaticità dell’opera del pittore di Castelfranco si fonda essenzialmente su due elementi stranianti. In primo luogo il paesaggio, che per la prima volta è il soggetto centrale di un’opera pittorica (se ne parla in effetti come del primo “paesaggio” della storia dell’arte occidentale). In secondo luogo l’indeterminatezza. La caratteristica che più genera inquietudine nell’osservatore è che il dipinto è privo di un riferimento chiaro a un episodio biblico, mitologico o allegorico.
L’opera di Giorgione sposta quindi drasticamente l’attenzione dal pieno di significato, sia iconico sia simbolico, al vuoto. In effetti, a ben vedere, al fondo dell’enigmaticità dell’opera di Giorgione si situa un vuoto di significazione. “La Tempesta” si presenta senza riferimenti per una sua comprensione generando una perdita di senso compiuto, una perdita di una chiara ed univoca interpretazione. Una perdita di comprensione che ne esalta il suo fascino e che segna la dissoluzione di un mondo.
Non è un caso che l’opera del Giorgione compaia all’inizio del Cinquecento in ambiente veneziano. “La Tempesta”, e forse sta qui la potenza del suo secolare fascino, annuncia lo scombussolamento dell’organizzazione economica ed amministrativa della Repubblica di Venezia che, per la prima volta, deve riconsiderare la campagna e il suo paesaggio. “La Tempesta” testimonia quindi di un periodo di crisi preciso in cui la Serenissima non riuscì a cogliere le conseguenze del cambiamento radicale in atto in seguito alla scoperta dell’America. Le nuove rotte economiche non suonarono come una sveglia per Venezia che continuò a vivere una sorta di sogno lucido in cui si beava di fasti e splendori oramai definitivamente perduti. Si risvegliò solo due secoli dopo. E non fu un risveglio felice. Per due secoli Venezia si ostinò a vivere come se nulla fosse successo e la campagna veneta, il paesaggio dell’opera del Giorgione, rimase uno sfondo meraviglioso ma enigmatico e indomito. La gente di laguna vi scavò grandi canali che ne permettevano la navigazione, collegando così le ville alla città, ma rimase essenzialmente arroccata nella propria città palcoscenico, impegnata in una recita oramai obsoleta.
La perdita di capacità esegetiche e la crisi che ne consegue sono quindi i temi che Balestrini estrae dall’opera del Giorgione e che costituiscono le basi della sua rilettura. Costruiti scomponendo i particolari del famoso dipinto, e ricomponendoli in modo casuale con il commento di brani tratti dalla “Tempesta” di Shakespeare, i lavori del progetto “La Tempesta perfetta” hanno dunque come tema una delle inquietudini che attraversano l’attualità: la dissoluzione del mondo così come eravamo soliti comprenderlo.
La serie dei “Patchworks”, le scomposizioni a spirale rovesciata dei particolari del dipinto, acquistano in quest’ottica un nuovo significato. Non si tratta di un semplice e banale gioco caleidoscopico, bensì di una rappresentazione molto precisa e….chirurgica dell’attuale stato di straniamento e confusione che ci porta a non riconoscerci più nelle rappresentazioni (nei modelli) delle donne (Eva), degli uomini (Adamo), della politica (la città), della religione (il fulmine divino) ed anche della natura (il boschetto). Vale a dire che i paradigmi fondamentali che hanno strutturato e sostenuto finora la nostra capacità di leggere e comprendere il mondo vacillano, ci appaiono confusi, slegati dalla realtà che ci circonda.
La psicoanalisi contemporanea ci dice che la società è allo sbando per una carenza del Nome del Padre che ci norma. Ebbene, Balestrini sembra far sua questa tesi. Ciò che ci presenta è un turbinio di figure e pulsioni che invadono e smembrano la bella costruzione sorta dall’umanesimo rinascimentale che, seppure in modo enigmatico, ci ha permesso di dare un senso al mondo. La sensazione è quella di un mondo che si scompone, che crolla (“Tutto si dissolverà senza lasciare traccia”), lasciandoci storditi ed increduli ad osservarlo.
Ma è nella serie dei collages titolati “Commentario” che questa intuizione è sviluppata in modo diretto. Costruiti con ritagli di giornale che vanno a sporcare la contemplazione dei particolari ingranditi della tela del Giorgione, questa serie trova il suo punctum in un elemento che disturba, che perturba e che porta in primo piano temi quali la crisi economica, le discrasie del soggetto, l’inganno dell’immagine, l’opacità delle pulsioni, in un crescendo di confusione e straniamento. Le parole emergono a pezzi e piano piano si compongono in una sorta di discorso balbettante. Parla di memorie sradicate sui bordi dell’immagini dove la Storia scompare e i paradossi, i sogni spezzati, le pulsioni oscure e senza tempo, svelano le radici del reale. La serie dei “Commentari” è quindi la prima chiave di accesso a questa operazione. Se i “Patchworks” introducevano il tema dando il primato alle immagini in cui le frasi inserite restavano estranee ed avulse; nei “Commentari” l’equilibrio è invertito e sono le immagini a divenire secondarie e le parole (anche i frammenti di parola) s’impongono prepotenti, confuse ed enigmatiche. Le immagini si liquefanno. Rimangono solo i colori che si mescolano per tonalità e che costituiscono la base della serie delle “Tessiture”. Quest’ultime, nate dalla collaborazione di Nanni Balestrini e Luigi Bonotto che ha messo a disposizione del poeta tutta la sua capacità ed inventiva di maestro tessitore, si presentano come la dissoluzione finale dove parole ed immagini scompaiono ma, allo stesso tempo, anche come la dissoluzione iniziale, dove gli elementi minimi impiegati dal Giorgione (la gamma dei colori utilizzati
per la stesura dell’opera) sembrano riorganizzarsi in un brodo primordiale dove tutto è ancora possibile.
L’allestimento volutamente barocco che caratterizza la sala degli arazzi sembra un tentativo di interpretazione e rappresentazione plastica dell’incapacità dell’uomo contemporaneo di dare un senso compiuto alle “pulsioni oscure” che popolano questo momento di crisi, e che gli si presentano come frasi spezzate, brandelli di parole non- organizzate.
La crisi economica, finora sottotraccia nonostante il titolo “La Tempesta Perfetta” faccia riferimento alla crisi economico-finanziaria del 2008 come espresso da Balestrini stesso, si presenta sfacciatamente nella serie delle “Implosioni”. In questa serie le parole e le immagini si scompongono ulteriormente, lacerandosi e facendo emergere il denaro come unico elemento riconoscibile. Un elemento che appare anch’esso lacerato. La perdita di senso della superficie, costituita dalle immagini e dalle parole, lascia il campo all’economia come unica chiave esegetica ancora condivisa ma inesorabilmente corrotta e sfilacciata. Viene alla mente uno dei gli ultimi libri di Zizek: “Problemi in paradiso” che anche nel titolo si inanella alla serie di lavori di Balestrini. Nel libro di Zizek il paradiso è il capitalismo liberista che ci è sempre stato spiegato essere, anche se imperfetto, il migliore dei mondi possibili. Purtroppo molti sono i problemi che lo caratterizzano: precariato e disoccupazione, disuguaglianza sociale, crisi finanziarie, evasione fiscale, dissoluzione del welfare.
Il tema della cacciata del paradiso, inaspettatamente, diviene un tema di sinistra. Ma non un tema della sinistra a cui ci siamo abituati negli ultimi anni liberisti. Bensì un tema di una sinistra che non ha nessuna vergogna o imbarazzo a sviluppare la propria analisi facendo riferimento al comunismo come proprio orizzonte.
Se questo è vero per Zizek, lo è altrettanto per Balestrini, il cui impegno sociale e politico lo porta a sviluppare, in questo progetto, un ragionamento fine ed accurato sul cambio di paradigma che l’attuale crisi del mondo capitalista occidentale sembra annunciare. L’intrusione lacerante e lacerata del dollaro, con l’esplicito riferimento alla crisi economico-finanziaria, si configura inoltre come una sorta di citazione dei testi sull’usura di Ezra Pound e soprattutto al canto XLV: “Con usura nessuno ha una solida casa / di pietra squadrata e liscia/ per istoriarne la facciata, / con usura non v’è chiesa con affreschi di paradiso / … / Duccio non si fé con usura / né Pier della Francesca o Zuan Bellini / né fu la “Calunnia” dipinta con usura.” La presenza di Pound è peraltro giustificata da due motivi precisi. Il primo fa riferimento alla storia della ricerca verbovisiva di cui Balestrini è uno dei maestri italiani. L’utilizzo dei calligrammi operata da Pound nei suoi Cantos aprì di fatto la strada alle sperimentazioni verbovisive della seconda metà del secolo scorso (come testimoniato dalla scelta del termine Noigandres, estratto proprio dai Cantos, come nome dello storico gruppo brasiliano che diede inizio, assieme a Eugen Gomringer e Ovyd Falshtrom, alla poesia concreta). Il secondo motivo della presenza di Pound è appunto la sua posizione, espressa sia in alcuni saggi che nella poesia, sul conflitto tra economia e finanza. Pound era convinto inoltre che il poeta non può astrarsi dalle circostanze in cui si trova a vivere e che deve quindi intervenire nel dibattito politico ed
economico a lui contemporaneo. Convinzione ascrivibile anche a Balestrini che non si è mai sottratto ad esprimere le sue posizioni politiche e le sue critiche economiche. L’ultra-capitalismo contemporaneo emerge quindi come forza lacerante, distruttiva nel tessuto dell’immagine e della poesia. La sua spinta imperante, che porta la società contemporanea a sacrificare qualsiasi valore o credenza sull’altare del profitto, riducendo a merce-gadget qualsiasi cosa, consuma inesorabilmente ogni significazione che va oltre il denaro stesso, imponendosi come unico senso “naturale” della realtà. Questa pervasività totale del capitale, come già indicato da Jacques Lacan nel suo Discorso del Capitalista, agisce come slegante perché impone il godimento del singolo come unico orizzonte a scapito di ogni legame sociale. Lacan intuisce che il capitalismo non è solo uno dei modi più potenti di trasformare la società, da feudale a industriale, da contadina a urbana, da nazionale a globale, ma è un discorso che frantuma le relazioni affettive e solidali. Il Discorso del Capitalista impoverisce la complessità del presente e le nostre qualità mentali. Pone dei forti limiti a quell’immaginazione creativa necessaria per interpretare in modo evolutivo le trasformazioni in corso.
Il discorso è rafforzato dalle macchie di colore che compaiono su questa serie di lavori che si configurano come delle lordature materiche, vere e proprie metafore tangibili della lordura morale contemporanea generata dal denaro: corruzione, vizio e depravazione. L’esegesi biblica, a cui l’interpretazione dell’opera del Giorgione poteva dar adito, lascia quindi lo spazio ad una profonda e acuta analisi politico sociologica del contemporaneo priva di ogni forma di consolazione o perdono.
Novembre 2015 – Marzo 2016