La performance

Intervento nell’ambito di

I linguaggi artistici del Nuovo Secolo

Musei Civici di Bassano, 18 maggio 2017

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Pubblicato in

1917-2017 L’arte contemporanea 100 anni dopo / I linguaggi artistici del nuovo secolo

Ed. Musei Civici di Bassano del Grappa, Vi, 2018

Il tema di questo mio intervento sono le performance e i linguaggi artistici del nuovo secolo. Bisogna, tuttavia, fare subito una precisazione: se per nuovo secolo si intende nello specifico il XXI secolo, la performance non può essere considerata un nuovo linguaggio perché nasce e si sviluppa nel secolo scorso. Una figura come quella di Hugo Ball rappresenta perfettamente un esempio di uso del corpo e di presenza dell’artista in scena ascrivibile a più di cent’anni fa. Per certi versi, inoltre, la performance non è nemmeno un linguaggio. Si tratta, piuttosto, di una pratica, di una serie di azioni che consentono di attuare, realizzare e applicare concretamente un principio o una teoria. Se intendiamo, infatti, per linguaggi artistici la pittura, la scultura e tutto ciò che ha caratterizzato per secoli l’arte, si può dire che la performance nasca essenzialmente come pratica in opposizione ai linguaggi convenzionali e codificati dell’arte. Parlare di linguaggio a proposito della performance è, allora, funzionale a rendere conto del suo carattere storico dato che, a distanza di un secolo, non solo ha assunto delle forme stabili ma è anch’essa ricaduta in una definizione convenzionale tanto da essere insegnata in Accademia.

Dagli anni ’60 in poi le performance sono state riconosciute come un linguaggio, sempre più canonizzato e codificato. Quando si assiste ad una performance oggi spesso vi sono dei fotografi e delle riprese professionali, per non parlare del sistema di vendita che, in un certo senso, segue e anticipa la performance stessa. Con questo probabilmente si è persa quella carica di rottura che accompagna la nascita delle performance artistiche, ma questo non toglie che le performance di alcuni artisti contemporanei – come ad esempio quelle di Regina José Galindo – possano essere talmente potenti da andare al di là di questo sistema di vendita e commercializzazione. La messa in questione dei linguaggi artistici tradizionali, che è stata operata attraverso la destrutturazione del linguaggio stesso, è ciò che accomuna tutte le ricerche artistiche del secolo scorso, avanguardie perprime. Le stesse categorie di pittura e scultura, ad esempio, sono state fortemente messe in discussione. Si può quindi affermare che, verso la fine del 1800 e l’inizio del 1900, gli artisti abbiano ritenuto insufficienti gli strumenti e i linguaggi che avevano a disposizione. Tali linguaggi non solo non erano più in grado di dire qualcosa sulla realtà, ma non erano nemmeno più in grado di dire qualcosa sul soggetto in quanto artista e sul suo rapporto con il mondo. Il primo passo in questa direzione si può riscontrare a proposito dell’Impressionismo e dell’Espressionismo, nei quali la rappresentazione della realtà esterna cede il passo all’espressione del mondo interno dell’artista. La spinta che ha sostenuto gran parte dell’evoluzione dell’arte nel secolo scorso è quella di superare, continuamente, i limiti imposti alla ricerca artistica stessa. In particolare questa spinta era animata dall’idea di poter fare dell’opera medesima il luogo di incontro con la realtà del soggetto-artista. Questo desiderio artistico del 1900 diretto ad un incontro con il reale ha subito una notevole accelerazione a partire dal Secondo dopoguerra, facendo emergere sempre di più come il funzionamento del linguaggio, nel suo cristallizzarsi all’interno di codici e convenzioni, escluda il carattere pulsante e reale della vita. Alla rappresentazione, che non lasciava spazio alla vita,risponde quella che si potrebbe definire una poetica del gesto. Il richiamo alla vita pulsante è, inoltre, una delle costanti più riconosciute e invocate dalle avanguardie del Novecento. Basti pensare alle note invettive di Marinetti contenute nel Manifesto del Futurismo contro la cultura morta e decadente, la «fetida cancrena» che per l’artista colpiva l’Italia. Oppure, al richiamo alla vita pulsione che ritroviamo nel Fluxus, al punto tale che nel secondo manifesto si parla espressamente di: «liberare l’arte dagli intellettualismi», ossia di far tornare l’arte ad essere compresa e usufruibile da tutti, e non più ad una ristretta élite di persone che ne decide tanto il significato quanto il valore. L’arte, in particolare per Fluxus, doveva essere strettamente collegata alla vita, al punto tale che non vi era distinzione fra arte e vita. 

Per capire questo passaggio bisogna tenere presente che, a partire dall’inizio del Novecento,si assiste ad un’evoluzione teoretica che ha portato gli artisti a produrre più concetti che oggetti.Molti degli oggetti artistici del ‘900 sono in fatti dei meri esempi di applicazione di un concetto, o di un assunto poetico che, spesso, non rispondono più ai canoni che costituivano la tradizione artistica precedente come, ad esempio, l’equilibrio e l’armonia. Ciò non toglie, ovviamente, che anche nel Novecento siano stati prodotti moltissimi oggetti che si possono definire tradizionali ma che, nonostante questo, non rispondono più a quella “forma” che è stata critica e decostruita nel corso del secolo. Essi, piuttosto, la ripresentano sotto una forma riorganizzata. A distanza di cinquanta o sessant’anni noi possiamo ritenere equilibrate, o formalmente perfette, opere come quelle di Alberto Burri o di Jackson Pollock, ma è indubbio che si tratta di un’organizzazione completamente diversa rispetto ad una composizione di un Tiepolo, di un Casorati o di un Jacopo Bassano. Ciò che è fondamentale evidenziare è che l’avanzamento dell’arte avviene su un versante più teorico che tecnico, ed è questo avanzamento teorico che ha condizionato la produzione delle opere e anche la concezione attuale del bello. 

Questa premessa ci aiuta a comprendere che il termine performance può certo essere interpretato, adesso, come linguaggio – dato che è stato via via sempre più accettato e canonizzato -, ma è importante riconoscere che la performance è nata come pratica in grado di trasmettere un discorso soggettivo entrato in crisi nei precedenti linguaggi artistici. Il soggetto-artista, ma più in generale il soggetto stesso, è nascosto dal e nel linguaggio stesso che ostacola l’espressione dell’esperienza soggettiva. Di conseguenza il linguaggio, in tutte le sue forme, viene riorganizzato per fare emergere delle nuove possibilità. Oppure, come nel caso di Baudelaire, esso viene ricostruito per contribuire alla costituzione di una «nuova lingua» in grado di andare oltre al sistemadualistico basato sulle opposizioni. Certamente è impossibile uscire dal linguaggio, quindi tutti i nostri sforzi per una gestualità assoluta sono sempre accompagnati da un processo inverso di ricodifica e di ricontestualizzazione. Tuttavia questa contraddizione è esattamente ciò che muove l’artista a trovare nuovi mezzi creativi. La performance è nata proprio nel tentativo di superare il linguaggio stabilito e le sue ripartizioni. Non solo, ma questa spinta è tesa allo stesso tempo verso i limiti stessi del corpo. Il duro attacco al linguaggio si spinge al punto tale da azzerarlo lasciando come unico resto il gesto. A differenza della libera interpretazione della parola, il gesto è immediatamente comprensibile. 

Parallelamente a questa spinta verso qualcosa che sia intuitivamente comprensibile, abbiamo detto che vi è una spinta alla produzione di concetti. Ossia verso la produzione di opere che, al contrario, abbisognano di spiegazioni, cioè di un percorso esegetico. Nel corso del secolo scorsoquesta spinta ha assunto una dimensione talmente autoreferenziale che ha portato, per contraccolpo, alla necessità di rintrodurre qualcosa di diretto e comprensibile a tutti e, anche su questo versante, la soluzione è stata trovata nuovamente nel gesto e nell’atto. Non è un caso se nel manifesto di Fluxus a cui ho fatto riferimento prima emerga questo bisogno di «purgare il mondo dagli intellettualismi» accompagnato dall’idea che l’arte è vita. L’atto artistico, la performance, resta quindi come unica autentica soluzione sia per poter essere compresi e sia per poter esprimere il soggetto. Il gesto e l’azione divengono l’unica possibilità per poter affermare la personalità e la soggettività dell’artista; l’opera stessa diviene un’azione e una tensione vitale espressa nella performance. Al cuore della quale non può che trovarsi il corpo stesso dell’artista. 

​Nella performance quindi, l’artista esegue una serie di azioni tese a trasmettere un messaggio prestabilito. La performance è caratterizzata da quattro elementi: il tempo, lo spazio, il corpo dell’artista e la relazione che si stabilisce tra performer e il pubblico. Nella performance l’opera stessa è dunque l’azione di un soggetto in un luogo e in un momento specifico. Le performance, quindi, nascono e acquisiscono valore artistico solo se strettamente legate al contesto artistico ed estetico a cui si riferiscono. L’happening è un tipo di performance che è stato introdotto e teorizzato da Allan Kaprow nel 1959 ed è caratterizzato da una sequenza prestabilita di azioni che portano i partecipanti ad intervenire condividendo l’azione creativa, al punto da renderlaassolutamente imprevedibile. Come afferma Kaprow a questo proposito: «l’happening è una forma di teatro – quindi una convenzione – in cui diversi elementi alogici, compresa l’azione scenica priva di matrice, sono montati deliberatamente insieme e organizzati in una struttura a compartimenti». Anche se il caso viene provocato, e vi è questa compartimentazione dell’azione in diverse fasi, esso gioca un ruolo dominante. L’happening non è cioè spontaneo, serve qualcuno che lo inneschi. E quel qualcuno è proprio l’artista. In entrambe queste formulazioni – performance ed happening – il riferimento al contesto artistico culturale è centrale, vale a dire che le performance e gli happening hanno senso solo all’interno di gallerie, di festival, di musei e di manifestazioni artistiche, dove il contesto permetta a tutti di interpretarle come performance. Se estratti da questo contesto, perdono completamente la possibilità di essere fruiti come opere, risultando delle azioni banali e sterili. Per questo è importante sottolineare che solo la contestualizzazione nel mondo dell’arte permette a determinati gesti di essere interpretati come arte. Quindi ad essere centrale in tutto questo è proprio l’utilizzo del corpo, il quale apre all’incontrollato perché non è possibile prevedere quali saranno le reazioni degli altri corpi presenti. 

Il concetto di indeterminatezza è un concetto introdotto da John Cage in ambito musicale. A partire dagli anni Cinquanta egli addotta, infatti, una serie di tecniche aleatorie e casuali per la composizione della musica. La partitura di Fontana Mix del 1959 è l’esempio di una musica che si scrive da sola e si compone attraverso la sovrapposizione casuale dei fogli. Non solo in questo modo la composizione può essere sempre diversa, ma gli stessi fogli possono scivolare aprendo quest’intera operazione all’indeterminato rendendo impossibile parlare di una partitura definitiva. Il concetto di indeterminatezza ha affascinato moltissimi studenti che frequentavano i corsi tenuti da Cage al Black Mountain College verso la fine degli anni Cinquanta. Molti di questi allievi che erano musicisti, artisti e poeti divennero poi i principali protagonisti di Fluxus. Ed è proprio grazie a Fluxus che la pratica della performance e dell’happening si diffuse e cominciò a germogliare fino a diventare una pratica consueta.

Precedentemente il corpo aveva già avuto un ruolo fondamentale nell’arte, in particolare nel movimento artistico giapponese Gutai. Non è un caso che questo movimento sia giapponese. Nel pensiero Orientale l’aleatorietà ha un suo ruolo specifico. Nelle ceramiche Raku, ad esempio, è impossibile prevedere il risultato finale della colorazione ottenuta in cottura. A questo si aggiunge che proprio Cage aveva introdotto il caso nella musica a partire dall’I Chingil libro dei mutamenti, il famoso testo divinatorio cinese. Ebbene, il Gutai nel tentativo di andare oltre alla tradizione pittorica calligrafica giapponese, che era rimasta ferma al secondo dopoguerra, aveva dato ampio spazio al corpo come elemento determinante in grado di andare contro alla rigidità della struttura del linguaggio giapponese. Alcuni importanti documenti appartenenti alla collezione Luigi Bonotto,e conservati nella Fondazione Bonotto, aiutano a mostrare come il Gutai possa essere considerato il primo movimento che usò in modo sistematico l’happening e la performance, e che influenzò ampiamente il mondo Occidentale. Ad essere diffusa e nota era soprattutto la loro rivista omonima,di cui uno degli abbonati era Jackson Pollock, che ne rimase talmente affascinato da portare il suo stesso corpo dentro il quadro. Uno dei membri fondatori del movimento Guati è Saburō Murakami che già a partire dagli anni Cinquanta realizza delle opere gettandosi a corpo morto o passando di corsa attraverso delle carte tese su telaio. Il riferimento è alla tradizione dello Shodō – letteralmente “arte della scrittura” – dove la gestualità espressa attraverso la calligrafia è una parte essenziale dell’opera. Nell’arte di Murakami questa tradizione lascia posto ad un gesto violento e trasgressivo nel quale l’impronta dell’artista non si ritrova più nello stile calligrafico, ma si realizza letteralmente passando attraverso la carta. È una vera e propria scrittura con il corpo. In ogni scrittura è possibile trovare una propria particolarità stilistica, dettata dalla propria gestualità, ma non vi è mai traccia completa del soggetto. Il soggetto è sempre mediato, filtrato, dal linguaggio. Murakami ci presenta in questo modo un tentativo chiaro e facilmente percepibile di andare oltre a questo ostacolo per giungere ad una gestualità pura. Un altro grande maestro del Gutai è Shōzō Shimamoto. Anch’egli inizia negli anni Cinquanta a realizzare dei dipinti lanciando delle bottiglie di colore sulle tele o sulla carta, da terra o da grandi altezze, come è successo qui a Bassano del Grappa in occasione della mostra Sentieri Interrotti del 2000. In questo caso, la casualità sostituisce completamente l’intenzionalità dell’artista, al punto da superare il gesto del dripping di Pollock, dato che in quest’ultimo vi è ancora un qualche tipo di controllo della colatura. Al contrario, nel lancio delle bottiglie di Shimamoto non vi è nessun controllo. In entrambe le opere di Shimamoto e di Murakami l’happening, l’aspetto performativo è un elemento essenziale. La presenza fisica è centrale. Ma non sono ancora delle performance in senso pieno, poiché la performance in quanto tale non ha come fine la realizzazione di un oggetto separato da sé. L’oggetto della performance è l’azione stessa. Questo significa, in altre parole, che ciò che è importante nella performance e nell’happening è l’esperienza. 

Con la performance si assiste ad un passaggio fondamentale: l’arte esposta diviene un’arte in cui si è esposti. Si passa, cioè, da un’arte da ammirare a un’arte da vivere, da un’arte da contemplare a un’arte da respirare, da una fruizione passiva dell’arte ad una fruizione attiva. L’arte deve essere esperita nel momento. Per questo motivo diviene necessario prendere parte all’opera stessa con tutti i rischi che ne conseguono. Sia da parte dell’artista, che non può più controllarne il risultato, sia da parte di chi vi partecipa, perché non si può prevedere cosa succederà. Nel famoso happening The Courtyard di Kaprow l’intera Martha Jackson Gallery di New York fu riempita di copertoni invitando i visitatori presenti non solo a muoversi e a camminare tra i copertoni, ma anche a spostarli e a lanciarli. Risulta evidente che non vi è una precisa sequenza di azioni da seguire che significano qualcosa, ma tutto è lasciato al caso e alle reazioni del pubblico. Il pubblico diviene così egli stesso l’autore che dà vita all’opera. In un altro suo famoso happening del 1964 intitolato Household l’artista ha innescato tra i partecipanti una giocosa battaglia in cui si lanciavadella terra. Questi momenti non sono assolutamente controllabili né per quanto riguarda il loro svolgimento né per gli effetti che possono causare. 

Ritornando a Fluxus, una delle azioni simbolo di questo movimento artistico è sicuramente Piano Activities di Philip Corner, eseguita da George Maciunas, Dick Higgins e Ben Patterson a Wiesbaden nel 1962. L’importanza di questa azione deriva dal suo essere stata indicata come il vero e proprio inizio del Fluxus. Il fine di questa azione non è la costruzione di un oggetto, ma piuttosto la sua distruzione. Nella partitura scritta da Corner vi è scritto di «produrre tutti i suoni possibili con il pianoforte» buttando degli oggetti sulle corde, suonando contemporaneamente da una parte e dall’altra quelle stesse corde così da arrivare ad una modificazione radicale del suono. Non vi era scritto di distruggere il pianoforte. La distruzione del pianoforte attuata dai performer è quindi un’interpretazione estrema della partitura di Corner tanto che egli stesso, una volta venuto a conoscenza di questa esecuzione, ha risposto che nella partitura non c’era scritto di distruggere il piano e che, se si voleva farlo, avrebbe preparato una partitura ad hoc. Qualche anno dopo ha infattirealizzato una partitura che contiene delle istruzioni precise su come mettere in atto questa distruzione. In ogni caso, l’idea fondamentale che si può trarre da questa performance, e che diventerà sempre più importante negli anni Sessanta, è che l’esperienza riesce ad andare più a fondo dello studio. La partitura di Corner e l’azione che ne è derivata dimostrano che esistono molti suoniproducibili con uno strumento – in questo caso il pianoforte – che fino alla fine degli anni Cinquanta non erano stati ancora minimamente indagati. 

La storica performance Cut Piece di Yoko Ono in cui l’artista, immobile e impassibile,invita il pubblico a tagliare dei pezzi del vestito che indossa, induce i partecipanti ad assumere su di sé il peso dell’oltraggio che stanno commettendo, trasformando l’intera performance in un’azione politica molto forte. Su un versante più giocoso Game Fashion Show di Takako Saito consiste nel coinvolgere gli spettatori in una improbabile sfilata di moda con abiti realizzati dall’artista. Questi abiti non sono altro che una serie di tasche contenenti palline con dei messaggi che dovevano essere scambiati tra i presenti. Sono quindi degli abiti che aiutano a creare delle connessioni e delle relazioni fra i presenti, in opposizione alla creazione e alla fissazione di un proprio ruolo che deriva solitamente dagli abiti. 

In Up to Including Her Limits, Carolee Schneemann – premiata quest’anno con il Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia – legata ad una imbragatura e tenendo in mano un gessetto, si trasforma in un pennello vivente, testando così i limiti del proprio corpo. Si può notare in questa performance una sorta di continuità, un’evoluzione del discorso di Murakami.

Questi tre esempi sottolineano che la pratica performativa a partire dagli anni Settanta, e poi con la Body Art, nella quale il corpo compie o subisce delle azioni violente, diviene una pratica ampiamente adottata dalle donne. Per fare solo alcuni esempi basti pensare alle importanti quanto radicali performance di Gina Pane, Orlan, Rebecca Horn o la già citata Regina José Galindo. Negli anni Settanta Orlan, artista storica della Body Art, in Le Baiser de l’artist si era presentata al pubblico dentro una struttura in cui vi era, da una parte, una sagoma della madonna con dei ceri e, dall’altra parte, una sagoma e una struttura di un corpo femminile nudo dietro al quale era seduta Orlan. Il pubblico era invitato a scegliere se inserire un moneta per accendere un cero o mettere i soldi in questa struttura nella quale la moneta veniva inserita vicina alla bocca e scendeva in un contenitore posto all’altezza della vagina ricevendo in cambio un vero bacio dall’artista. Questa scelta radicale, fra la santa e la puttana, metteva in luce e denunciava i due ruoli entro i quali per secoli il mondo femminile è stato incastrato. Un’azione forte, politica, anche se non si arriva a quell’utilizzo estremo del corpo femminile che troviamo in Interior Scroll di Carolee Schneemann o in Vagina Painting di Shigeko Kubota. 

Decisamente meno politico e radicale è Corner, a cui ritorniamo. Nel concerto-performance realizzato all’interno della fabbrica Bonotto intitolato Posso passeggiare ascoltando il mondo come un concerto, il pubblico accompagnava Corner concretizzando l’idea di poter ascoltare qualsiasi suono e qualsiasi rumore del mondo, quindi anche i rumori prodotti dai telai della fabbrica letti, come fossero parti di un concerto. 

Come ultimo esempio vorrei portare La Pythie Claustrophobe di Julien Blaine. Perché Julien Blaine è un poeta, ed è un poeta che non ha trovato altro modo di dare forma alla sua poesia se non con il gesto, con l’azione. Questo perché, come ha dimostrato Ball e come ha dimostrato ilFuturismo, è proprio con la poesia che per la prima volta viene posta l’attenzione sul corpo e sulle sue potenzialità espressive funzionali alla creazione di un nuovo linguaggio poetico. 

Il risultato finale di una performance non è un oggetto, e questo implica che di una performance non resta nulla. Se non, appunto, l’esperienza vissuta. Questa assenza radicale dell’oggetto opera d’arte, inoltre, ha portato il sistema dell’arte a dare valore ad altri oggetti: le fotografie,  i video, i documenti e i resti delle performance. La Collezione Luigi Bonotto conserva moltissimi di questi documenti ed è proprio questo a darle rilevanza a livello internazionale. Perché proprio i documenti permettono non solo di ricostruire gli eventi e capirne il significato, ma in qualche modo sopperiscono l’assenza di oggetto caratteristico della performance. La particolarità di questi documenti è quella di essere dei relitti di performance, degli oggetti-scarto. Questi oggetti possono essere considerati opere d’arte? Ad esempio, il violino rotto che resta dopo la performance di Walter Marchetti si deve considerare un’opera d’arte? In un certo senso lo è, se facciamo riferimento al cambiamento di statuto che ha subito l’opera d’arte passando dalle sue funzioni classiche a testimonianza, traccia di un’azione artistica. Per la loro collocazione simbolica nel mondo dell’arte, questi oggetti devono passare attraverso un sistema di certificazioni che può essere accostato a quello delle reliquie. Queste, infatti, sono accompagnate da bolle papali o vescovili che certificano l’autenticità, e quindi la santità, dell’oggetto in questione. La stessa qualità e quantità di certificazioni e di autentificazioni, confermanti che tale oggetto è stato a contatto con un momento artistico e creativo, accompagna, ad esempio, i resti di una performance di Ben Patterson. Le reliquie in qualche modo funzionano come velo di protezione davanti a un momento di creazione angosciante, perché privo di un oggetto che possa in qualche modo ancorare il godimento esibito dall’artista. E questo ci spinge a riflettere sul perché nel Novecento questi oggetti siano diventati così centrali, così come ci spinge a confrontare lo statuto di una reliquia-opera d’arte con lo statuto di una reliquia-religiosa, dato che in entrambe è il corpo ad assumere una posizione centrale,diventando testimone di un’azione d’arte o testimone di un momento di sublimazione. Questo cambiamento di statuto è anche, a mio avviso, alla base delle manifestazioni psicotiche così evidenti in alcuni ambiti artistici dove l’artista, attraverso l’ostentazione del proprio godimento, ha assunto su sé stesso la funzione di martire, vale a dire di testimone. La via della reliquia però non è la via della stigmate. Se in quest’ultima la traccia deve incidersi nel corpo, deve cioè trovare una via di iscrizione nel reale che passa per il corpo, nella reliquia tale passaggio avviene per via simbolica attraverso il processo di certificazione della reliquia stessa. In ogni caso, in entrambe le vie, vi deve essere qualcosa da conservare. Un pezzo della realtà, forse della verità se diamo valore al riferimento alla religione, deve essere staccato e valorizzato nella sua peculiarità a volte insignificante. 

Questa spinta alla conservazione è emersa sempre più chiaramente nell’arte contemporanea in parallelo al processo prima descritto di decostruzione dei linguaggi. Lo si può chiaramente riconoscere come centrale nella poetica del Nouveau Réalisme. I manifesti strappati di Rotella, le accumulazioni di César, gli imballaggi di Christo rispondono alla necessità di conservare qualcosa della realtà circostante. Massimo esempio in questa direzione sono i table-piège di Spoerri in cui dei semplici tavolini catturano, intrappolano per l’eternità i resti di un pasto. 

Man mano che si azzera la possibilità di riferimento ad un valore simbolico unitario condiviso, cresce la necessità di preservare, salvare un elemento della realtà che abbia una qualche connessione con il miracolo della creazione. Veri e propri “Pieces of reality” come li ha magistralmente definiti Philip Corner.