Henri Chopin, l’utopista del linguaggio

Intervento presentato alla giornata di studio:
“Millenanni Terzo Anno – Henri Chopin. Visiva Utopia”
un progetto a cura di Giovanni Fontana, Giuseppe Morra e Patrizio Peterlini
9 aprile 2024
Casa Morra, Napoli

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Per Henri Chopin la poesia sonora è impensabile senza il magnetofono. O, meglio, senza i mezzi di registrazione e di manipolazione del suono messi a disposizione dalla tecnica a partire dagli anni Cinquanta.
La sua è una posizione netta, più volte ribadita:

Fu allora che, all’inizio degli anni Cinquanta, rari poeti poterono scoprire dei media che, nella prima metà del secolo, erano ignorati perché non esistevano.(…) ma non tutti potevano conoscere l’essenziale, cioè che prima del 1950 il poeta obbediva alla parola conosciuta, a volte esaltata, mentre con i registratori la parola come la voce sono in piena costruzione. (1)

Henri Chopin è tra i primi a dedicarsi a questo nuovo campo di sperimentazione sviluppando un percorso che mira alla de-costruzione del linguaggio esistente in favore della nascita di un nuovo linguaggio.
Questa sua idea s’incarna nella tendenza ad un annullamento della significazione in favore del puro suono che lo ha portato ad investigare tutti i suoni formulabili dall’apparato fonatorio e a proporre una poesia che è pura indagine dei suoni prodotti dal corpo umano, fino agli esiti più estremi e radicali, come calarsi un piccolo microfono nello stomaco (La digestion, 1974).
Il poeta francese mira non solo alla produzione di suoni inarticolati ma anche alla creazione di esperienze acustiche estreme. La tecnologia viene usata da Henri Chopin come una protesi euristica per esplorare le intensità interiori. Amplificando suoni quasi impercettibili prodotti dal corpo, il poeta francese tende a smontare il mito romantico della “interiorità” come sede dell’anima umana, ponendone in primo piano i suoi elementi (e suoni) organici. Schiocchi, succhi, respiri, salivazioni, etc. divengono un nuovo vocabolario espressivo che permette a Chopin la creazione di poesie sonore dal forte impatto emotivo, aprendo la strada alla dissoluzione delle barriere tra poesia e musica.

Ma la posizione filosofica che sottende a tutto il suo lavoro è bene espressa in un suo famoso testo del 1967 dal titolo Perché sono l’autore della poesia sonora e libera in cui Chopin si riferisce al linguaggio come al Verbo, con V maiuscola (il riferimento biblico mi sembra evidente) e scrive:

È impossibile, non si può continuare con lo strapotere del Verbo, questo Verbo regnante su tutto. Questo monarca mai discusso, mai attaccato, e che è là, vivente delle sue malattie sacre. (2)

Un attacco che si spinge quindi all’impianto funzionale e simbolico che il linguaggio stesso istituisce. Vale a dire le basi normative che regolano il discorso sociale.
In buona sostanza: se avessimo la possibilità di reinventare la lingua e i caratteri convenzionali con cui la traduciamo in scrittura, se avessimo l’opportunità di stabilire diverse connessioni tra le parole e ciò che rappresentano o illustrano, quali trasformazioni sociali otterremmo?
L’intento è quindi quello di scoprire o riscoprire un linguaggio al di qua del linguaggio. Qualcosa che viene prima, che lo genera e che è in presa diretta con il Reale.
Una impresa che lo accumuna a Antonin Artaud e che possiamo leggere ad esempio in questo suo passaggio:

È la ricerca di un mondo perduto
e che nessuna lingua umana raggiunge
lingua la cui immagine sulla carta non è più di un
calco, una specie di copia
ridotta
poiché il vero lavoro è nelle nubi.
Parole, no,
Aride placche di un respiro… (3)

Per Chopin quindi questa impresa è fattibile solo grazie alla possibilità offerta dalla macchina di svincolarsi da un significato radicato, incistato, al significante che ci permette di accedere ad un puro ed innovativo gioco sull’aspetto sonoro del significante per creare nuovi significati.
Lo stesso intento governa anche i suoi dattilopoemi dove i segni linguistici vengono usati non per creare parole e significati ma per andare contro alla solidità del segno linguistico stesso. La sovrapposizione dei caratteri dattiloscritti crea a tutti gli effetti dei nuovi enigmatici segni aperti a qualsiasi libera interpretazione non riconducibile a saperi consolidati e normativi.
In questo senso Chopin è forse l’ultimo dei grandi utopisti.

Ma in che termini dobbiamo intendere questa utopia?
Ebbene, molto semplicemente, in termini linguistici.
Chopin è un utopista del linguaggio.
Vale a dire che crede fermamente nel progetto irrealizzabile di rifondazione del linguaggio e si prodiga anima e corpo, soprattutto corpo, in questa impresa.

Per approfondire questa mia tesi, proporrò la lettura di alcuni brani tratti da Les Riches Heures de l’Alphabet, straordinario libro pubblicato nel 1992 che vede la collaborazione di Paul Zumthor, il grande filologo medioevale svizzero. Collaborazione non casuale. Sappiamo come Zumthor abbia dedicato molti scritti alla poesia orale, in particolare medioevale con scritti che hanno fatto epoca nel contesto della poesia sonora. Ma in questo testo, la sua presenza si fa ancora più ricca, perché non solo Chopin e Zumthor si alternano nello scrivere i vari capitoli dedicati alle lettere dell’alfabeto, ma la sua presenza ci costringe a prendere molto sul serio il titolo scelto.
Les Riches Heures de l’Alphabet ci fa infatti inevitabilmente tornare alla memoria il Très Riches Heures du Duc de Berry, uno dei più straordinari libri miniati del XV secolo.
Di che cosa si tratta?
Ebbene di un libro d’ore, una raccolta di salmi e preghiere destinata alla devozione privata.
La cui notorietà è dovuta alle stupefacenti miniature dei fratelli Limbourg.
Dobbiamo quindi prendere molto seriamente questa precisa referenza e considerare questo Les Riches Heures de l’Alphabet come un raccolta privata, anzi intima, di preghiere, vale a dire di appelli, d’invocazioni, di meditazioni sulla dimensione del sacro, che per Chopin è, inevitabilmente mi verrebbe da dire, costituito o, meglio, incarnato, dall’alfabeto.

La struttura del libro è estremamente semplice.
Ogni lettera viene presentata da una sua figurazione in forma di dattilopoema e dalla puntuale descrizione delle sue componenti fonetiche, fonologiche e morfologiche, non prive di sfumature visionarie e poetiche, a cura di Zumthor, seguite poi da un testo di Chopin, questo sì più poetico e visionario, che partendo anch’esso dalla contemplazione della lettera si fa, con il progredire della scrittura, sempre più teorico e poetico/politico, nello stile caratteristico del poeta francese.

Il libro si apre con un testo introduttivo di Chopin intitolato Envol, che possiamo tradurre con prendere il volo, che inizia con queste parole:

La formazione di un corpo è inseparabile dall’alfabeto, la formazione di una parola (o di un verbo), non omette il suo scheletro (4)

Questa sorta di aforisma introduce da subito un sistema binario che governa tutto il libro e che alterna materiale e immateriale, solidità e inconsistenza, corpo e alfabeto, scheletro e parola, terra e oceano nell’invenzione di una realtà vivibile.
Scrive infatti Chopin poche pagine più avanti:

Ora, lo scheletro e la sua parola-carne sono invenzioni dell’uomo, e l’uomo invenzione della parola (5)

Ma un’invenzione fallace perché incapace di dire interamente l’esperienza umana.
Perché l’alfabeto è limitato mentre la vita infinita.
L’alfabeto, lo scheletro, il solido, copre solo il 25% del mondo mentre l’oceano tutto il resto.

L’interessante è che l’accento viene messo sulla parte inconsistente che modella la parte consistente.
Una sorta di ribaltamento.
Non è la terra a delimitare l’oceano bensì l’oceano a scavare, erodere, modellare la terra.
Chopin propone una sorta di dualismo mistico, ricordiamoci che è un libro di preghiere, che unisce in una sola eterna compenetrazione e modellazione reciproca due componenti inconciliabili.

Da bravo poeta concreto attribuisce la parte dello scheletro alle lettere, mettendo così in valore l’aspetto concreto, materico, fisico del linguaggio. Quasi una precipitazione fisica, una concretizzazione del suono (“placche di un respiro” come definite da Artaud), del l’inconsistenza dell’aria modulata dall’apparato fonatorio nella solidità della lettera, del carattere, del segno grafico. Ed introduce una metafora, a mio parere bellissima, in cui la vita-oceano, modella l’alfabeto.-spiaggia, del verbo-terra.

E l’oceano disegna le spiagge dei solidi, le rende geometriche, le dona movimento.
E di fronte all’oceano io dono l’alfabeto-spiaggia del verbo altrettanto solido, geometrico e commovente.
Tuttavia, le spiagge sono movimenti.
E l’alfabeto diventa muovere, in realtà muovere del verbo, così come le spiagge muovono gli oceani, anche se è il contrario se conosciamo l’oceano padrone dei continenti, il verbo padrone del suo scheletro, tutti inseparabili nei fuochi d’artificio chiamati vita.
(…)
Simile alla spiaggia, il nostro alfabeto solca il verbo che l’uomo inscrive, costruendo la sua civiltà, mettendola al male, al bene, come l’oceano solca le terre portandone la carne, nel bene, nel male.
E l’oceano è una creazione, così come lo è la parola. (6)

Ed è infatti il concetto di creazione che fa da base alla metafora dell’oceano, figura ricorrente in questo scritto di Chopin. Oceano che è parte dell’equazione oceano=donna=vita che Chopin esplicita alla fine del suo testo introduttivo mettendo l’accento sulla funzione creatrice.

Come la donna modifica l’embrione, come l’alfabeto permette il verbo, come l’oceano forgia l’oceano, il continente (7)

Ma l’oceano-donna nasconde al suo fondo qualcosa di più radicale.
Vale a dire l’impossibilità di dire l’amore, di dire il godimento. In particolare femminile, in quanto si sottrae alla dinamica dualistica presenza/assenza caratteristica di quello maschile, come sappiamo dalla psicoanalisi.
Ma andiamo per ordine.

Nel capitolo dedicato alla lettera C, Paul Zhumtor ci ricorda che questa lettera è:

segno della luna nuova, crescente e calante, il suo contorno disegna la proiezione del corso lunare sopra l’orizzonte, misure del tempo e dei cicli, delle piante e delle donne, governando attraverso di esse tutta la vita (8)

Ma è Chopin, nello stesso capitolo, a donarci alcune indicazioni chiave di molta della sua produzione:

E l’oceano ritorna.
Apparizione prodigiosa in lotta contro ogni lettrismo ignorante della vita, che mi ha sempre ripugnato, che non ho mai prodotto, che si doveva uccidere come si uccide il fascismo, il drago esangue, che era l’alfabeto antico e che io ho moltiplicato verso infiniti disegni, esattamente come l’oceano disegna le spiagge.
Questa scoperta oceanica mi è stata visibile in compagnia della mia donna, lei che sa, sa amare nel vasto corpo.
(Lei mi fu la rivelatrice.) Me lo ha rivelato lei.
Del resto, sei tu che mi illumini, e io non ti favoleggio. Tu ondeggi dappertutto in me e lo sai poiché io sono in te.
Provo la tua miriade di sensi.
Me li doni stringendomi a te.
Divieni così imperiosa che vi chiedo ancora, nei vostri baci necessari.
(…)
Ti prendo in giro, verbo, perché sei la mia preda.
Lei? La mia donna, attraverso lei io sono, oltre le tue “V”.
Verbo, ti modello secondo l’egoismo degli stili.
Ti piego ai miei voleri, tu che ho reso visivamente brillante, tu che ho fatto esplodere nei suoni oltre te stesso, della tua fonetica e dei tuoi scheletri.
Ciò significa che nel vecchio stato eri spregevole, non eri abbastanza grande, compreso nel genio del poeta. Verbo, tu ti sei trascinato troppo dietro agli dei, agli ideologi; tu non eri che un domestico. È di te, servo, che rido, dopo averti superato per decenni con la mia sola voce. Stai correndo dietro ai suoni, sai, quelli che non avevi previsto. Tu ignorante dell’amore, della donna e dell’oceano, ritorna alle tue dotte approssimazioni.
La donna mi aspetta, la mia donna è qui.
Sbrogliatela. (9)

Abbiamo qui delle affermazioni estremamente ricche.

Chopin rivendica un lavoro di moltiplicazione dei segni linguistici e soprattutto un superamento del Verbo grazie alla sua voce, ai suoni emessi dal poeta. Suoni che, come sappiamo, indagano il corpo e che qui viene messo in chiaro riferimento alla donna “che sa amare nel vasto corpo” e che si presenta come colei che rivela questa verità, perché illumina il poeta stringendolo a sé.
Contrariamente al verbo, alla parola, che ignora l’amore, la donna e l’oceano. Realtà che approccia o descrive solo con dotte approssimazioni, vale a dire con una costruzione di sapere che si avvicina ma non raggiunge mai la verità del godimento oceanico custodito nel corpo della donna.
Un godimento segreto e indicibile.
Contrariamente a quello maschile, che può essere detto, e quindi rappresentato, nell’alternanza della turgescenza e flaccidità dell’organo.

Ora, la dinamica presenza/assenza è anche alla base del linguaggio che funziona proprio grazie a questa struttura binaria che rende presente, nominandolo, ciò che è assente.

Vediamo bene come la questione di fondo di tutto il lavoro di Chopin sia come andare oltre questo limite del linguaggio e dire l’indicibile; come chiaramente espresso da Chopin in questo passaggio che si trova a pagina 28 del nostro libro di preghiere, Les Riches Heures de l’Alphabet:

Una tale vertigine attanaglia la parola di fronte all’amore che non può descriversi. Niente gli è facile delle sue parole e lettere che si diffondono in tutte le direzioni senza che nulla riesca a convincerlo che sa amare. Il verbo, tutto sommato, per il più ricco dei poeti – se rimane allo stato delle sue parole – fossero anche bibliche, è un fallimento, non risolvendo in alcun modo i nostri miliardi di vibrazioni.
Niente di lui dice, donna mia, quello che tu mi doni, anche se ti sussurro i sapori più dolci dell’amarti.
Da lui non escono che delle convinzioni che, nella loro forma più ampia e generosa, danzano con i loro timbri sensibilizzando il tuo orecchio, in un vibrato indescrivibile che il tocco della mia mano sul tuo seno aumenta ancor più della parola.

Io non verbalizzo l’amore (10)

Tutto questo parallelismo tra oceano e godimento, l’idea della spiaggia-alfabeto mi portano inevitabilmente ad uno straordinario scritto di Jacques Lacan del 1971: Lituraterre, tradotto in italiano con Lituraterra.(11)
Il neologismo coniato da Lacan unisce in sé il termine latino LITURA, vale a dire cancellatura, e il termine TERRA ed è un chiaro gioco di parole con il lemma litterature. Un calembour che amplifica quello tra LETTER e LITTER (vale a dire tra LETTERA e LORDURA, immondizia) già introdotto da James Joyce.
In Lituraterre Lacan parla della genesi del testo stesso evocando il suo viaggio di ritorno dal Giappone. Viaggio in aereo, che lo ha portato tra le nuvole, da dove ha potuto osservare il paesaggio siberiano eroso dalla pioggia. Lacan asserisce quindi che le nubi sono quelle del linguaggio, le nuvole del sembiante che quando si rompono, si mettono a piovere del godimento. Vale a dire che quando il significante si rompe si condensa ciò che vi era contenuto. E quando questa pioggia di godimento arriva a terra, ecco che la scava, la erode e si produce la lettera, la scrittura. La Lettera-Litter non è che il segno del godimento contenuto nel sembiante. Uscire dal linguaggio produce quindi un resto fuori significato che fa buco: il godimento.
Non è un caso che sempre in Lituraterra Lacan accenni alla letteratura d’avanguardia come unico luogo dove questa questione si propone. Vale a dire che la letteratura d’avanguardia, dice Lacan, è un litorale, un luogo di confine non definito, il litorale tra sapere e godimento..
Litorale che ha una vicinanza incredibile con il concetto di plages introdotto da Chopin.

Non voglio qui ora addentrarmi ulteriormente nella lezione lacaniana, sebbene mi sembri un percorso estremamente proficuo come ho già dimostrato in altri miei interventi, ma vorrei solo sottolineare che le glossolalie, la scrittura vocale, sono la strada maestra per torturare la lingua al fine di estorcergli il godimento. Sono gli strumenti più semplici ed ampiamente usati nella poesia sonora per giungere al punto in cui la parola tocca il reale del godimento, presentandosi essa stessa come godimento. E nessuno come Chopin è riuscito a far risuonare la lingua a partire da questi suoni fuori significato, instabili, asemantici in uno sforzo sovrumano di frequentare questa plages-alphabet, questo litorale tra sapere e godimento per inoltrarsi in questa terra di nessuno in cui non si può vincere, perché non si può accedere pienamente al reale se non al prezzo di una devastazione.
Forse è esattamente questo punto di devastazione, di sconfitta, che viene rappresentato nell’ultima produzione di Chopin. Queste sorta di accumuli di detriti, di scarti, di LITTER con i quali il poeta sembra ricollegarsi, tornando alla preghiera, al famoso mihi videtur ut palea (mi sembra paglia) riferito ai propri scritti da Tommaso d’Acquino, o all’idea di Poubellication di Lacan, neologismo che unisce le parole poubelle e pubblication, quindi pattumiera e pubblicazione. In buona sostanza, una presa di coscienza da parte di Chopin che la sua utopia linguistica è sostanzialmente irrealizzabile.

Note

1) H. Chopin, En guises d’autobiographie forcément incomplète, LemonMelon & Richard Saltoun Gallery, London 2015

2) H. Chopin, Pourquoi suis-je l’auteur de la poésie sonore et libre, in M. E. Solt, Concrete poetry: a world view, Indiana University Press, London 1968, pp. 80-82

3) Antonin Artaud, Oeuvres, Gallimard, Paris, 2004. Pag 1014

4) Henri Chopin / Paul Zumthor, Les Riches Heures de l’Alphabet, Edition Traversière, Paris, 1992. Pag. 8

5) Idem. Pag. 13

6) Idem. Pag. 13

7) Idem. Pag. 19

8) Idem. Pag. 33

9) Idem. Pag. 34/35

10) Idem. Pag. 28

11) Jacques Lacan, Lituraterra, in: J. Lacan, Altri Scritti, Einaudi, Torino, 2013

 

 

Intervento presentato alla giornata di studio:
“Millenanni Terzo Anno – Henri Chopin. Visiva Utopia”
un progetto a cura di Giovanni Fontana, Giuseppe Morra e Patrizio Peterlini
9 aprile 2024
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