Occorre purgare il mondo dalla malattia borghese,
dalla cultura commericializzata, dall’arte morta…
Promuovere un’alluvione e un’inondazione rivoluzionaria nell’arte…
Promuovere l’arte viva, l’anti-arte, promuovere la realta’ della non arte.
George Maciunas
Analizzando la storia della letteratura analitica che si e’ occupata d’arte, si nota una tendenza alla costruzione di una critica “patografica”, cioe’ di una critica che riduce l’opera d’arte al sintomo dell’artista, ad una rappresentazione del sintomo dell’artista.
E’ chiaro che questa via e’ la meno interessante per l’avanzamento della psicoanalisi.
Seguendo l’insegnamento di Lacan siamo invitati ad eseguire un rovesciamento di prospettiva. La questione non e’ quella di applicare la psicoanalisi all’arte e/o all’artista, ma di applicare l’arte alla psicoanalisi. Come scrive Regnault: “Lacan non applichera’ la psicoanalisi all’arte, ne’ all’artista. Ma applichera’ l’arte alla psicoanalisi, pensando che poiche’ l’artista precede lo psicologo, la sua arte dovra’ far avanzare la teoria analitica”.
Partendo da cio’ che Lacan esprime nel VII seminario, e cioe’ che l’arte e’ un’organizzazione attorno al vuoto; l’applicazione propostaci sembra abbastanza lineare.
Considerando l’arte e la psicoanalisi come dei trattamenti dell’inconscio, siamo invitati a confrontarci con l’arte e con la sua evoluzione teorica, in quanto il trattamento del vuoto messo in atto dagli artisti puo’ illuminare dei punti oscuri della teoria analitica.
Leggiamo ancora in Regnault: “Non si riterra’ quindi che ci sia in Lacan il disegno di percepire cio’ che l’artista o l’opera rimuove, ma piuttosto l’opera e l’artista faranno percepire cio’ che la teoria misconosce ancora. L’opera va incontro ai suoi eventuali pregiudizi, e il teorico dell’analisi ricevera’ dall’arte il suo messaggio in forma rovesciata”.
Lacan, nel VII Seminario, ci indica che “tutta l’esperienza analitica non e’ altro che l’invito alla rivelazione del suo (del soggetto n.d.r.) desiderio”. Sulla via che porta al desiderio troviamo pero’ degli ostacoli, delle barriere. “La dimensione del bene alza una muraglia possente sulla via del nostro desiderio. E’ anche la prima con cui abbiamo, a ogni istante e sempre, a che fare”.
La seconda barriera, “la vera barriera che ferma il soggetto davanti al campo innominabile del desiderio” e’ la barriera dell’esperienza estetica. Questa barriera ha una particolarita’ sottolineata da Lacan: “nella scala di cio’ che ci separa dal campo centrale del desiderio, se il bene costituisce la prima rete d’arresto, il bello forma la seconda, e va piu’ vicino. Ci arresta, ma anche ci indica in che senso sta messo il campo della distruzione.
Che in questo senso, mirando al centro dell’esperienza morale, il bello sia piu’ vicino al male del bene, non ha, spero, da stupirvi molto”.
Cio’ che interessa a Lacan e’ sottolineare come ci sia “un certo rapporto del bello con il desiderio. Questo rapporto e’ singolare, e’ ambiguo.”
Mi sembra, quindi, ci venga indicato che esiste una sorta di avanzamento parallelo ed incrociato, tra il discorso analitico e il discorso estetico.
La ricerca estetica del novecento. Una lettura possibile.
Vediamo allora come e’ avanzata la ricerca estetica nel corso del secolo scorso.
In questo piccolo percorso, faro’ particolare riferimento all’avanzamento teorico sviluppato nell’ambito della poesia sperimentale, verso quella che Adriano Spatola ha definito “Poesia Totale”.
Scelgo la poesia perche’ il dire analitico (inteso come tutto cio’ che e’ detto durante un’analisi) e il dire poetico, seguono un percorso che potremmo definire parallelo. Entrambi aprono il linguaggio ad un livello ultra-linguistico. Nel senso che c’e’ sempre nei due “dire” qualcosa che va oltre, qualcosa che trapassa la parola, che la travalica e la rende altro. Entrambi gli ambiti di ricerca si confrontano quindi con qualcosa di estraneo alla parola, ma che si esprime solo attraverso di essa.
La spinta che ha sostenuto gran parte dell’evoluzione dell’arte contemporanea nel secondo dopo guerra e’ quella di superare i limiti imposti alla ricerca estetica dal sistema delle arti e dalla rappresentazione, nello sforzo di rendere possibile, nell’opera d’arte, un’incontro con il reale. Il desiderio artistico va verso un incontro con il reale
La messa in questione dei linguaggi artistici, operata attraverso la loro distruzione e ristrutturazione, e’ cio’ che caratterizza le ricerche delle varie avanguardie succedutesi nel secolo scorso. Una ricerca operata attraverso continui rilanci e ripensamenti che ha portato gli artisti ad una forte meditazione sulla questione del reale.
Da questa ricerca emerge che cio’ che resta inespresso nell’opera d’arte e’ la vita. La vita pulsante, reale, messa “fuori scena” (o su “un’altra scena”) dalla rappresentazione.
E’ esattamente cio’ che si cerca in ogni modo di far rientrare attraverso quella che potremmo definire “poetica del gesto”.
Il richiamo alla vita pulsante e’ forse la costante piu’ conosciuta e piu’ invocata delle avanguardie del Novecento. Ricordiamo le famose invettive di Marinetti contro i passatisti, la cultura morta e decadente che si prefiggevano di “liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquari”; o quell’altrettanto famoso ed emblematico slogan che accomuna tutte la avanguardie:”Epater les bourgeois!”
Questo discorso diviene piu’ chiaro analizzando l’evoluzione della poesia, che storicamente anticipa ed indica le vie di sviluppo delle arti. Nello sviluppo di questo discorso dobbiamo pero’ tenere ben presente una cosa fondamentale: l’evoluzione dell’arte contemporanea e’ un’evoluzione concettuale. Va sottolineato che il percorso artistico del novecento, con una particolare accelerazione nel secondo dopo guerra, ha portato gli artisti a produrre piu’ CONCETTI che OGGETTI. Gli oggetti d’arte, le opere, sono spesso dei meri esempi di applicazione di un concetto, di un assunto poetico, e non rispondono piu’ a quei riferimenti formali di “equilibrio” e di “armonia” che li avevano caratterizzati e identificati come opere d’arte. Cio’ logicamente non toglie che si siano prodotti anche oggetti che possiamo definire “tradizionali”, cioe’ che rispondono a quelle norme formali tanto criticate e smantellate, ma che ricompaiono “riorganizzate”. A distanza di piu’ di mezzo secolo troviamo molto “belle ed equilibrate” le composizioni di un Burri o di un Pollock, ma e’ fuori discussione che si tratti di un’altra organizzazione rispetto alle composizioni di un Tiepolo o, per rimanere nel novecento, di un Boccioni.
Cio’ che rimane sostanziale, e che a noi piu’ interessa, e’ che l’avanzamento del discorso estetico avviene su un altro versante: quello teorico. Ed e’ questo avanzamento teorico che condiziona la produzione e la concezione del bello.
Detto questo, torniamo al nostro esempio: l’evoluzione della poesia d’avanguardia nel Novecento. In essa, cio’ che viene messo in crisi e’ il linguaggio come struttura in grado di trasmettere e comunicare un discorso soggettivo.
Il soggetto non e’ piu’ evidente nel suo discorso, ma vi ci si nasconde. Il linguaggio e’ un’ostacolo all’espressione dell’esperienza soggettiva del poeta. In definitiva, possiamo dire che nella poesia emerge cio’ che c’insegna Freud. Il soggetto appare nelle fratture del discorso, nei lapsus, nei sogni, non nel suo discorso cosciente e controllato. L’assunto che il poeta anticipa lo psicologo trova anche qui una sua conferma.
Per questo motivo Rimbaud, che con il suo “J’est un autre” smaschera definitivamente l’inganno linguistico che ha sorretto la poesia fino al suo arrivo, e’ un genio. Ritrovandosi con armi spuntate ormai inutili ed obsolete, armi linguistiche incapaci di dire qualcosa del reale dell’esperienza soggettiva a cui mira tutta la sua poesia, non restava che commerciare con armi funzionanti, armi reali, ed e’ questa la scelta compiuta da Rimbaud. Una scelta da criminale.
Una volta tolto di mezzo il soggetto-parlante, il soggetto versificatore, rimane solo il linguaggio come ostacolo all’espressione soggettiva. Ed e’ su di esso che si sviluppano tutte le sperimentazioni artistiche del Novecento. Il linguaggio, in tutte le sue forme, subisce un percorso di distruzione e di riorganizzazione. Sia il linguaggio poetico che quello pittorico-plastico subisce nel Novecento una distruzione sistematica alla ricerca di nuove possibilita’, di una “nuova lingua”. E’ logico che, seguendo questo percorso d’azzeramento del linguaggio, alla fine non rimanga che il gesto.
Ma lo scacco che questa ricerca estenuante di una nuova lingua incontra, portera’ Rimbaud ad un altro colpo di genio, ad una nuova apertura verso quell’inconu che il suo predecessore Baudelaire ha ricercato durante tutta la sua vita. Portera’ Rimbaud alla rinuncia e al silenzio. Un silenzio assolutamente imbarazzante e molto piu’ significativo di qualsiasi altra parola.
La poesia tradizionale e’ morta, definitivamente spogliata di ogni significazione e possibilita’ espressiva. Non puo’ piu’ dire nulla. Il linguaggio, che definiremo “lineare”, non puo’ dire il reale dell’esperienza umana.
Il silenzio di Rimbaud va letto come un atto. Un atto temerario e fondamentale. Un atto criminale. E’ azione pura; ed in questo Rimbaud si ricollega all’essenza della Poesia (dal greco Poiesis (poieo) = faccio). Ma e’ anche un atto analitico, un atto che taglia e che opera come punto di capitone su tutto il discorso poetico precedente. E’ un avanzamento teorico rivoluzionario.
In quest’atto mi sembra risuonino le seguenti parole di Lacan: “Questa purezza, questa separazione dell’essere da tutte le caratteristiche del dramma storico che ha attraversato, e’ proprio questo il limite, l’ex nihilo, intorno a cui Antigone si mantiene. Non e’ altro che il taglio che la presenza stessa del linguaggio instaura nel movimento della vita dell’uomo.
Questo taglio e’ manifesto a ogni momento, per il fatto che il linguaggio, scandisce tutto cio’ che accade nel movimento della vita dell’uomo”.
E’ questo limite che Rimbaud invita ad oltrepassare e/o rielaborare.
Il silenzio di Rimbaud, da questo punto di vista, e’ sicuramente la sua opera maggiore e, a mio parere, la prima performance della storia della poesia.
Il gesto artistico, la performance, resta sul campo come unico e solo autentico rappresentante del soggetto. Il poeta de-soggettivato (cioe’ che non ha piu’ la possibilita’ di affermarsi, di dirsi, come soggetto attraverso il linguaggio) non trova altro che il gesto, l’atto, come possibilita’ di affermazione personale e soggettiva.
Al di la’ dei rimandi immaginari dell’io sono (poeta, artista, etc.; identificazione oramai definitivamente assorbita dalla figura del poeta-maledetto, cioe’ del poeta ribelle alla legge sociale) ed oltre alla collocazione simbolica (l’inserirsi in un determinato discorso: dadaista, surrealista, etc.; collocazione in una serie che riduce la soggettivita’ del poeta ad una cifra) non resta che il reale espresso nell’opera-atto. Non l’opera in quanto prodotto di un’attivita’ che, giocando con i linguaggi, tende ad annullarsi e desoggetivarsi nel TUTTO del sistema dell’arte, ma nell’opera come lavoro, azione, tensione vitale espressa nella performance, nel gesto artistico, nella scelta singolare espressa nell’atto.
Si puo’ leggere in questo senso tutta l’evoluzione della poesia d’avanguardia: dalle “parole in liberta’”, destinate ad una lettura recitante, fino ad arrivare alla poesia sonora e alle performance di poesia totale.
Dalla poesia lineare alla poesia totale.
Il primo avanzamento del secondo dopo guerra in questa direzione e’ quello compiuto dalla poesia concreta.
Nel 1953 Oivynd Fahlstrom pubblica in Svezia il suo Manifest for Konkret poesie. Contemporaneamente, e senza conoscere il manifesto del poeta svedese, Eugen Gomringer pubblica in Svizzera una raccolta di poesie intitolata Constellation. Nello stesso momento, dall’altra parte dell’oceano, in Brasile, all’oscuro del lavoro dei poeti europei, Haroldo De Campos completa la sua raccolta Poetamenos e pone le basi teoriche del Gruppo Noigandres (composto, oltre che dallo stesso Haroldo, da Augusto De Campos, Decio Pignatari e Azevedo).
E’ l’inizio della poesia concreta. La stessa soluzione poetica viene contemporaneamente elaborata da diversi poeti in diverse parti del globo.
Di che cosa si tratta? Leggiamo la definizione di Max Bense pubblicata sulla storica rivista Modulo: “Si tratta di una poesia che non riproduce il senso semantico ed il senso estetico dei suoi elementi, ad esempio le parole, con la consueta formazione di contesti ordinati linearmente e grammaticalmente, ma gioca su nessi visivi e nessi di superficie. Non la giustapposizione delle parole nella mente ma il loro intreccio nella percezione e’ dunque il principio costruttivo di questo genere di poesia. La parola non viene usata principalmente come veicolo intenzionale di significati ma anche come elemento materiale di figurazione, di modo che significato e figurazione si condizionano e si esprimono reciprocamente. Simultaneita’ della funzione semantica ed estetica delle parole sulla base di una utilizzazione contemporanea di tutte le dimensioni materiali di questi elementi linguistici, i quali possono anche apparire spezzati, in sillabe, suoni, morfemi o lettere, per esprimere le condizioni estetiche della lingua nella sua dipendenza dalle loro possibilita’ sia analitiche che sintetiche. Solo in questo senso il principio della poesia concreta coincide con la ricchezza materiale della lingua.”
Risulta chiaro che questo primo passo della nuova poesia sperimentale va nella direzione di un forte ripensamento del linguaggio come mezzo espressivo. Si cercano nove possibilita’. Dopo la distruzione del linguaggio lineare, serve un nuovo linguaggio che apra nuove possibilita’ estetiche.
E’ cio’ che viene chiaramente indicato nella parte finale del Piano pilota per la poesia concreta 1953/1958: “Poesia concreta: responsabilita’ totale dinanzi alla lingua. Compiuto realismo. Contro una poesia di espressione, soggettiva ed edonistica. Creare problemi precisi e risolverli in termini di linguaggio sensibile. Un’arte generale della parola. Prodotto della poesia: un oggetto utile”.
E’ interessante sottolineare che la Poesia concreta ha forti legami con gli aspetti sonori della poesia stessa. I riferimenti sviluppati dai poeti concreti sono all’Arte del rumore (1913) del futurista Russolo, e lo stesso Arrigo Lora Totino, curatore del numero di Modulo dedicato alla poesia concreta, parla di poesia optofonetica. Una poesia che coniuga l’aspetto visivo all’aspetto fonetico. La voce, il suono, il rumore, in definitiva la presenza di un corpo e delle sue modulazioni, sono elementi imprescindibili nella ricerca poetica.
In altre parole, nel momento che la poesia esce dalla linearita’, possiamo dire che esce dalla pagina, diventa azione. E’ cio’ che viene affermato anche in un altro importantissimo testo teorico redatto dal poeta uruguaiano Clemente Padin, che porta un eloquente titolo: De la rapresentation a’ l’action.
La poesia sonora nasce e si sviluppa contemporaneamente alla poesia concreta. Spesso gli stessi poeti producono poesie concrete, sonore e, poco piu’ tardi, poesie visive. Il suono e la presenza di un corpo recitante indicano, ancora una volta, la necessita’ latente a questa ricerca di un incontro con il reale. Questa ricerca esprime la volonta’ di far rientrare nella poesia cio’ che il linguaggio esclude. “De certains des aspects du corps, emetteur de parole, on peut, il est vrai, parler en termes semiologiques. Mais le corps, respire, travaille, souffre et meurt, ce qu’un signe n’a jamais fait..”.
La ricerca poetica e’ sempre piu’ attratta dalla con-fusione dei linguaggi, e la possibilita’ offerte dall’utilizzo del corpo sfociano in vere e proprie azioni poetiche o in performances dove la poesia ha definitivamente abbandonato non solo la pagina, ma la scrittura stessa cercando quella “nuova lingua” che tanto ossessionava Rimbaud.
Ma l’utilizzo del corpo apre anche alla possibilita’ d’intrusione, nel discorso poetico, dell’imprevisto, del non programmato, dell’incontrollabile.
Anche nella poesia avviene quindi l’irruzione della “poetica del gesto”. E’ nell’atto che il soggetto-poeta trova un modo per dire e modificare il proprio reale. Un modo per confrontarsi con il proprio godimento che va sicuramente oltre quella parola a cui ne era destinata l’espressione e la rappresentazione.
A conclusione di questa piccola panoramica storica, vorrei citare un testo che gia’ nel titolo ci indica una chiara intenzione e una altrettanto chiara direzione di sviluppo della ricerca tentata dai poeti sperimentali: La poesie hors du livre, hors du spectacle, hors de l’objet.
In questo testo si puo’ leggere: “LE VERITABLE OBJET DE LA POESIE, C’EST CE QUI PASSE APRES QU’ELLE A EU LIEU, SA MANIFESTATION N’ETANT EN SOI QU’UNE ENTICELLE, UNE EPISODE, UN SIGNAL SOLUBLE.
(…)
Comment la poesie pourrait-elle echapper au discontinu, au montage, sinon en renoncant a’ l’objet, au livre, au mot, a’ la lettre, au spctacle? Car il n’y a jamais dans la vie quotidienne de relation simplement lineaire ni de situation purement contemplative.
L’ecriture va DU MONDE AU MOT.
La poesie Deux points, elle, fait le chemin inverse: DU MOT AU MONDE.”
Mi sembra chiaro come in questo percorso di evoluzione della poesia che tende alla possibilita’ di incontro, di espressione e di modificazione del reale risuoni qualcosa dell’esperienza analitica. In particolare di quella “via del desiderio” a cui accenna Lacan nel VII seminario.
Accenno brevemente ad un’altra implicazione legata alla scelta di Rimbaud (e, attraverso di lui, di gran parte dell’arte contemporanea). Lacan parla nel VII seminario dello spazio tra le due morti come quello dove si apre la possibilita’ dell’operazione della bellezza. Momento in cui Antigone rifulge di bellezza accecante. La prima morte viene identificata con l’acquisizione dell’assunto: non c’e’ significante che rappresenta il soggetto. Ed e’ proprio la consapevolezza di quest’assunto che porta Rimbaud a morire poeticamente. A chiudere definitivamente la sua “stagione all’inferno” e dirigersi verso la possibilita’ d’incontro con il proprio rapporto con la Cosa, con il godimento della Cosa.
Forse non e’ un caso che Rimbaud, negli anni vissuti in Africa, si dedichi, come unica attivita’ “artistica”, alla fotografia. Mezzo all’epoca innovativo di “captazione” del reale.
Per inciso non va dimenticato, a tale proposito, che la fotografia e il video fanno la parte del leone nell’attuale panorama artistico.
Il passaggio all’atto nell’arte contemporanea.
L’approdo alla performance, all’atto, sembra quindi esprimere il punto piu’ avanzato nella ricerca intrapresa dall’arte contemporanea. Ma e’ qui che sorge un paradosso inquietante.
Nello sforzo di rendere dicibile e/o rappresentabile l’irrapresentabile che ha caratterizzato tutta l’evoluzione dell’arte nel Novecento, questa ricerca trova, in questi ultimi anni, un punto di arresto, di corto circuito, nell’esposizione tout-court del reale e/o nel passaggio all’atto.
E’ il caso della Body Art. Tengo a precisare che non e’ solo nella Body Art che si assiste a questo estremo. Tutta la sperimentazione di Cage, per fare un altro esempio oltre alla poesia d’avanguardia, punta all’introduzione nelle partiture musicali dell’evento inatteso, imprevisto, fino ad arrivare all’esposizione del vuoto del reale attraverso la registrazione del silenzio.
Per Cage la musica si avvicina alla vita, che – se ascoltata attentamente – e’ in grado di fornire quantita’ infinite di elementi musicali.
Al limite, per Cage, l’insieme musicale si puo’ raggiungere con l’atteggiamento passivo dell’ascolto: il musicista deve limitarsi a rilevare l’aspetto musicale dei rumori e dei suoni prodotti da fonti conosciute o meno. Quindi piu’ che un produttore di suoni il musicista diviene un ascoltatore che puo’ far emergere la musica. Musica che in realta’ gia’ esiste e che ha bisogno soltanto di essere identificata. Di essere scelta, oggettivata, nominata.
Non va dimenticato che e’ da questa lezione fondamentale (oltre che dall’evoluzione della poesia sperimentale) che viene elaborata la pratica degli happening e, successivamente delle performance, con un uso sempre piu’ massiccio del corpo come mezzo espressivo. Fino ad arrivare alla Body Art.
L’arte happen, avviene, e l’artista la indica e la nomina quasi passivamente. Un versante psicotico accompagna l’evoluzione dell’arte contemporanea. L’artista si ritrova invaso da un linguaggio che lo determina, che lo muove e che gli impedisce di esprimersi soggettivamente, se non attraverso il passaggio all’atto.
E’ in questo percorso di avvicinamento al reale che si inserisce, come brevemente accennato in precedenza, l’uso sempre piu’ preponderante della fotografia e del video nell’arte contemporanea. Mezzi tecnici per carpire, immagazzinare la “real life”.
Questo versante psicotico e’ evidente, addirittura fastidioso e sconcertante, nella Body Art.
L’esibizione oscena del corpo e della sua carne, unita alle pratiche di masturbazione, mutilazione, etc. che caratterizzano la Body Art, hanno una stretta connessione con l’esibizione tout-court del godimento, con l’esposizione impossibile della Cosa.
Ma l’esibizione (video, foto e/o performances) in una forma di perversione estrema, deve pero’ essere sempre considerata come una forma d’espressione artistica contestualizzata e finalizzata all’organizzazione di un discorso concettuale. Conseguenza logica dell’evoluzione della sperimentazione artistica cosi’ come l’ho descritta. Le esposizioni cortocircuitanti avvengono sempre in un contesto ben definito: sono operazioni estetiche. In altre parole non possiamo astenerci, in una lettura dell’arte contemporanea, dalla fondamentale lezione che Duchamp ha espresso nei ready-made: e’ l’osservatore che fa il quadro ed il contesto che crea l’oggetto d’arte.
Lacan ci avverte che anche il desiderio, nell’incontro con la barriera del bello, subisce un cortocircuito. Mi sembra interessante mettere a confronto ancora una volta i due percorsi.
Dice Lacan: “E’ nella traversata di questa zona che il raggio del desiderio si riflette e allo stesso tempo si ritrae, arrivando a darci la cosa piu’ profonda di quest’effetto cosi’ particolare, cioe’ l’effetto del bello sul desiderio.
Il che sembra sdoppiarlo, in modo singolare, proprio dove prosegue la sua strada. Poiche’ non si puo’ dire che il desiderio sia completamente estinto dall’apprensione della bellezza – continua la sua corsa, ma piu’ che altrove, ha la sensazione di uno specchietto per le allodole, reso in un certo qual modo manifesto dalla zona di fulgore e di splendore in cui si lascia trascinare. D’altra parte, non rifratto, ma riflesso, respinto, il suo turbamento, lui sa bene che e’ ben reale. Ma qui, non c’e’ piu’ oggetto.
Donde queste due facce. Estinzione e temperamento del desiderio per effetto della bellezza(…)”
Per arricchire ancora questo intreccio tra il fare artistico contemporaneo e il dire seminariale di Lacan, mi sembra utile riportare lo stralcio di una dichiarazione di Gina Pane, una tra le piu’ importanti body artist degli anni settanta:
“I miei lavori erano basati su un certo tipo di pericolo. Arrivai spesso ai limiti estremi, ma sempre davanti ad un pubblico. Mostravo il pericolo, i miei limiti, ma non davo risposte. Il risultato non era vero e proprio pericolo, ma solo la struttura che avevo creato. E questa struttura dava all’osservatore un certo tipo di schock. Non si sentiva piu’ sicuro. Era sbilanciato e questo creava un certo vuoto dentro. E doveva rimanere in quel vuoto. Non gli davo nulla (…) Nel mio lavoro il dolore era quasi il messaggio stesso. Mi tagliavo, mi frustavo e il mio corpo non ce la faceva piu’. (…) La sofferenza fisica non e’ solo un problema personale ma un problema di linguaggio. (…) Il corpo diventa l’idea stessa mentre prima era solo un trasmettitore di idee. C’e’ tutto un ampio territorio da investigare. Da qui si puo’ partire in altri spazi, ad esempio dall’arte alla vita, il corpo non e’ piu’ rappresentazione ma trasformazione” .
Mi sembra di leggere in questo passo la volonta’ dichiarata da parte dell’artista di operare sul confine esistente tra la perdita di controllo, il caos, e la strutturazione, l’organizzazione del caos stesso. Appare cioe’ la creazione come forma di controllo della vertigine scaturita dall’incontro con il vuoto. Non c’e’ quindi una pura e semplice esposizione perversa. Mi sembra piuttosto di leggere qualcosa che va nella direzione dell’isterizzazione del godimento, in particolare del godimento sado/masochistico che caratterizza la struttura di potere sociale e che viene rappresentato dal dolore.
Scriveva Bruno Munari sul legame stretto esistente tra caos e ordine: “Nell’arte la regola e il caos formano un’unita’ felice. La regola, da sola, e’ monotona il caso da solo rende inquieti”.
Non siamo quindi di fronte al caos puro, al caos che rende inquieti, potremmo dire al caos psicotico. Ma al tentativo di una sua organizzazione in un discorso estetico, politico e filosofico.
La Body Art e la Poesia Totale (sonora, visiva e performartiva) portano l’artista ad un confronto serrato, diretto, inquietante con la Cosa, con il godimento della Cosa.
“Che in questo senso, mirando al centro dell’esperienza morale, il bello sia piu’ vicino al male del bene, non ha, spero, da stupirvi molto”.
“Le forme che sono all’opera nella conoscenza, ci dice Kant, sono implicate nel fenomeno del bello, senza pero’ che l’oggetto sia implicato. Non cogliete l’analogia con il fantasma sadico? – in cui l’oggetto e’ li’ soltanto come potere di una sofferenza, che non e’ essa altro che il significante di un limite. La sofferenza e’ qui concepita come una stasi che afferma che cio’ che e’ non puo’ rientrare nel nulla da cui e’ uscito.”
C’e’ una chiara volonta’, espressa dalla Body Art (presa qui come conseguenza estrema di un discorso evolutivo), di oltrepassare i limiti. Certo con una tendenza psicotica, che noi leggiamo come tale nella misura in cui l’atto, il passaggio all’atto, viene agito nel reale. Ma questa volonta’ si ricollega al discorso “criminale” di scardinamento delle leggi naturali. “Sommes nous encore persuades que nous devons plier aux decisions de la nature? Cette lotterie de genes distribues arbitrairement? Mon travail est en lutte contre l’inne’, l’inexorable, le programme’, la nature, l’A.D.N. (qui est notre rival direct en tant qu’artiste de la representation).”
E’ in questa volonta’ che si puo’ leggere l’oltraggio portato al bello, all’armonico, identificato e idealizzato nel corpo umano.
A questo proposito, sarebbe interessante sviluppare tutto un discorso legato all’immagine del corpo umano come rappresentazione del divino e viceversa, oltre al problema della “incarnazione divina” e della sua rappresentazione, che accompagna tutta l’evoluzione dell’arte occidentale. Discorso estremamente pertinente e ricco di implicazioni, ma che ci porterebbe assai lontano.
La performance mette in crisi il sistema dell’arte (e il collezionista) perche’ cio’ che resta, l’oggetto di scarto prodotto durante una performance, non puo’ da solo reggere il discorso estetico messo in gioco dall’artista. L’oggetto resto, che entra nel mercato come “oggetto d’arte”, non e’ che uno scarto, spesso inutile e brutto e talvolta addirittura osceno, del tentativo di rappresentazione del sublime espresso nella performance. E’ un oggetto feticcio che si ferma sulla soglia dell’inguardabile, del vuoto della castrazione, e che protegge il collezionista e/o il fruitore d’arte dal vuoto rappresentato, donandogli la possibilita’ del godimento dell’orrore nella forma del macabro (riscontrabile anche in gran parte dei reliquiari e dei film horror) o dell’invettiva. Un oggetto su cui si concentra tutto l’amore e/o tutto l’odio. Odio inteso come via per evitare il reale.
Il riferimento al feticcio e’ leggibile anche nelle affermazioni di Lacan. “L’effetto di bellezza e’ un effetto di accecamento. Qualcosa accade ancora piu’ in la’, che non puo’ essere guardato”. .
L’effetto di accecamento e’ legato da Lacan al “desiderio visibile”. .
E’ questo un passaggio chiave. La bellezza fa intravedere, rende in qualche misura visibile il desiderio, ma subito lo sguardo viene distolto e focalizzato sulla figura, sull’immagine di Antigone che rifulge perche’ ha passato il limite. Mi sembra inoltre di particolare interesse sottolineare che il testo riporti “desiderio visibile che si sprigiona dalle palpebre della mirabile fanciulla”. Non sono gli occhi a sprigionare luce, dall’interno di Antigone. Ma le palpebre, evidentemente chiuse, che riflettono una luce proveniente dall’esterno. Quella del desiderio e’ una luce riflessa.
La luce violenta, il bagliore della bellezza, coincidono con il momento di superamento, di realizzazione dell’Ate di Antigone (…). E’ da qui che si stabilisce secondo noi un certo rapporto con l’al di la’ del campo centrale, ma anche cio’ che ci impedisce di vederne l’autentica natura, cioe’ che ci abbaglia e ci separa dalla sua autentica funzione. Il lato toccante della bellezza fa vacillare ogni giudizio critico, ferma l’analisi, e fa piombare le diverse forme in gioco in una certa confusione, o piuttosto in un accecamento fondamentale.
L’effetto di bellezza e’ un effetto di accecamento. Qualcosa accade piu’ in la’, che non puo’ essere guardato. (…) Mentre Antigone si dipinge come Niobe nel pietrificarsi, con cosa si identifica? – se non con quell’inanimato che Freud ci insegna a riconoscere come la forma in cui si manifesta l’istinto di morte. E’ proprio di un’illustrazione dell’istinto di morte che si tratta.”
Quale insegnamento?
Vorrei concludere con alcune questioni che vanno nella direzione della clinica. Alla fine del lavoro di bordatura del vuoto, lavoro che Lacan reputa proprio dell’arte; troviamo un punto di arresto. Alla fine, o alla presunta fine, della ricerca che il lavoro artistico ha sviluppato, troviamo questo corto circuito dell’esposizione del reale e un chiaro riferimento all’istinto di morte, ad una sua illustrazione.
E’ in questo percorso verso l’indicibile che l’arte anticipa la psicoanalisi? E’ in questo che l’arte puo’ essere applicata alla psicoanalisi?
Se e’ nel trattamento del vuoto che qualcosa puo’ essere imparato, sia per la nevrosi che per la psicosi, cosa ci indica questo corto circuito?
Analizzando il percorso evolutivo dell’arte contemporanea, ed in particolare della poesia sperimentale, abbiamo visto come i tentativi di avvicinamento al reale siano sfociati nell’atto. Nell’oscena, disarmonica e sgraziata esposizione del godimento inscenata nella performance di poesia-azione; fino ad arrivare, nel caso della Body Art, alla spudorata e oltraggiosa esposizione della carne tagliata.
Qual e’ l’insegnamento rintracciabile in queste numerose esperienze “estreme” dell’arte?
Riprendendo il ragionamento di Regnault esposto all’inizio di questo scritto, cos’e’ che la teoria misconosce ancora?
Non credo che si possano tranquillamente liquidare questi interrogativi giudicando non-arte certe esperienze e manifestazioni della contemporaneita’. Mi sembra la strada piu’ semplice e sbrigativa per evitare la questione, oltre che la meno rispettosa dell’evoluzione concettuale operata in ambito artistico. Mi sembra si corra il rischio di ricadere nella costruzione di quella critica “patografica” secondo la quale: un’opera nata da un fondo di nevrosi e’ considerabile arte, mentre si possono sollevare dei dubbi su un’opera nata da un fondo di psicosi.
Mi trovo in questo pienamente d’accordo con Regnault quando si chiede: “C’e’ in Lacan un sistema che specifica questa figura del vuoto, che, in ogni caso, dimostrerebbe come cio’ che noi chiamiamo arte s’organizzi attorno al vuoto?
Dobbiamo escludere dal sistema dell’arte cio’ a cui non apparterra’ una tale organizzazione?
E ancora, quale autorita’ il vuoto e la Cosa danno alla psicoanalisi